La separazione delle carriere, se resta isolata, crea uno strapotere dei magistrati

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Ottenebrati, offuscati da pavloviani riflessi corporativi i magistrati aderenti all’Associazione Nazionale dei Magistrati sembrano simili a quel loro collega raccontato da Leonardo Sciascia: allievo del vecchio insegnante che deve interrogare, gli ricorda che sì, difetta di italiano ma è comunque arrivato dove è arrivato. L’insegnante perfido gli ricorda che l’italiano non è solo l’italiano, è il ragionare; con meno italiano ancora avrebbe fatto maggiore carriera. Che lingua parlano (e capiscono), all’Anm?

Per quel che riguarda il primo voto relativo alla separazione delle carriere di giudici e magistrati, i favorevoli siano sì soddisfatti, ma con prudenza, cautela, giudizio. È come una corsa di staffetta: il primo corridore è in testa, ma la corsa è ancora lunga, può sempre mutare qualcosa in corso d’opera. Se poi andrà in porto, i magistrati, a cominciare da quelli che con maggior vigore ed energia denunciano pericoli e rischi, dovrebbero essere i primi a essere contenti, soddisfatti: perché la separazione delle carriere presa a sé, se non seguita da altre riforme, finisce paradossalmente per conferire loro maggior potere di quanto già ne abbiano.

Se ci si limita alla separazione delle carriere il pubblico ministero si trasforma ufficialmente in un signore pagato dallo Stato, con a disposizione tutti i mezzi dello Stato, col compito di raccogliere prove ed elementi contro il cittadino che si trova a essere imputato. Ora, almeno, formalmente, il pubblico ministero ha il compito di trovare le prove sia a favore che contro. Che tipo di corrispondenza vi sia tra la “forma” e la “sostanza” dei fatti, nel quotidiano concreto, chiunque frequenta un tribunale, sa come vanno le cose. La separazione delle carriere è, insomma, un mattone di un più vasto edificio. Se ci si limita a quel mattone (e il rischio c’è), il pm non verrebbe penalizzato, ma dotato di ulteriore potere (potenzialmente strapotere, per di più irresponsabile tecnicamente). Ecco perché chiunque si batta e voglia la separazione delle carriere non può che battersi, contestualmente, per altri “mattoni” di una più generale riforma.

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In sintesi:

In caso di assoluzione in primo grado, non appellabilità del pm; il condannato al contrario può farlo. Questo per la semplice ragione che il pm ha a disposizione i mezzi forniti dallo Stato. Se non riesce a provare la colpevolezza, pazienza: vale il latino “in dubio pro reo”. Al contrario, il cittadino imputato che a disposizione ha solo il suo avvocato e la disponibilità economica per pagarselo, ha diritto a un secondo tentativo; il giudice deve garantire che il processo si celebri dentro il recinto previsto dalla legge, che si svolga come legge prescrive; ma la giuria sia popolare, non mista; le inchieste devono avere tempi certi, non dilatarsi negli anni con l’obiettivo, dichiarato o inconscio, di scrivere o riscrivere la storia.

Avrà questa classe politica l’intelligenza, la forza, l’autorevolezza, la capacità di condurre in porto queste riforme?

Qui davvero occorre imitare quel tale che vuole mettere il suo dito sul costato del Cristo, prima di convincersi che è tornato. 

Non ultima cosa: rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale. È un’ipocrisia che si sbandiera orgogliosamente, sapendo perfettamente che una quantità di procedimenti, anche per vicende gravi, ogni giorno cadono in prescrizione. E certamente il cittadino ignora i criteri per i quali un fascicolo viene privilegiato rispetto agli altri 99. Il magistrato agirà senza dubbio con scienza e coscienza, ma sicuramente un cittadino si sentirebbe più rassicurato se di volta in volta, periodicamente, si approntassero delle “regole”, e non ci si affidasse alla individuale coscienza. Si corrono dei rischi? Certo, come per tutte le cose umane; comunque, inferiori rispetto alle certezze dei nostri giorni.

Peccato che i magistrati che hanno abbandonato le aule quando a prendere la parola erano esponenti del governo, esibendo cartelli con frasi di Piero Calamandrei, si siano dimenticati che proprio Calamandrei si preoccupava di trovare un equilibrio tra il rischio di soggezione dei pm all’esecutivo e quello di una chiusura corporativa, rafforzata dall’arbitrio nella gestione dell’azione penale. Per questo propone la nomina di un “Procuratore generale commissario della giustizia”, organo di “collegamento” tra magistrati e governo. In parte magistrato, in quanto “scelto tra i Procuratori generali della Corte d’appello o di Cassazione” e in parte “rappresentante politico, in quanto sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica su designazione della Camera, prenderebbe parte alle sedute del Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponderebbe di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura”. “Essendo tale commissario il capo dell’organo di accusa, con potere disciplinare sui magistrati, ove si verificassero nell’interno del corpo giudiziario inconvenienti di carattere politico, a lui si potrebbe far carico di non aver saputo esercitare le sue funzioni”.

Ma di tutta evidenza che certi autori diventano spesso come pelle di Zigrino, da allungare e restringere a seconda della bisogna. Vale anche per Giovanni Falcone, di cui, ancora oggi, suoi colleghi con incarichi di responsabilità, negano o stravolgono idee e pensiero. Giusto per amor di chiarezza. Falcone, intervistato da Mario Pirani per “Repubblica” (3 ottobre 1991), dice: …Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungere nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono quindi esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato…”.

Nel sospetto che possa essere stato travisato (ma mai è giunta smentita), intervenendo a un convegno di Studi giuridici a Senigallia il 15 marzo 1990, in una relazione scritta di suo pugno, sostiene: “L’aver restituito il PM alla sua genuina funzione di organo della pubblica accusa, depurandolo da ogni ibridismo istituzionale, ha consentito di mettere a nudo uno dei punti nodali della questione giustizia nel nostro paese, che è quello del concreto esercizio dell’azione penale, e di relegare definitivamente in soffitta le tante polemiche fuorvianti sulla terzietà del giudice, sui pretori d’assalto, sul giudice sceriffo, dal momento che l’indipendenza e la terzietà del giudice intanto consente di garantire un’efficiente amministrazione della giustizia, in quanto le parti del processo siano poste in stato di effettiva parità e in quanto la pubblica accusa, ormai dichiaratamente parte, sia in condizione di eseguire adeguatamente la criminalità…”.

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Chi avversa queste riforme ricorda che anche Licio Gelli le auspicava, nel suo cosiddetto “piano di Rinascita”. Chissà se anche Falcone ne faceva parte. Ad ogni modo, val la pena di ripetersi: i sostenitori della separazione delle carriere hanno fatto “solo” un primo passo di un lungo percorso; se la riforma non sarà accompagnata da altre che ho cercato di sintetizzare, fossi un pubblico ministero sarei il primo a sostenerla, felice se venisse approvata da sola. Saprei bene come, dove, quando, usarla.



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