quel margine di discrezionalità dei pubblici poteri

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Gli elementi per un intrigo geopolitico-giudiziario non mancano: un generale libico che soggiorna in Italia, seppur ricercato in quanto da catturare su richiesta della Corte Penale Internazionale (CPI); il suo arresto; la successiva scarcerazione per un vizio formale; l’immediata espulsione, con rientro in Libia a bordo di un aereo italiano in uso ai Servizi segreti. Il tutto mentre la temperatura per la tribolata riforma della giustizia in corso è già elevata di suo. Peraltro, è da ritenersi evidente che le ragioni della condotta complessiva del governo italiano siano tutte “politiche”: sono connesse al difficile rapporto tra il nostro paese e la Libia non solo per ragioni di rotte migratorie, ma anche per interessi commerciali e di impresa sussistenti tra le parti. E non si può fare a meno di notare che è effettivamente difficile trattare (“capirsi”) con la leadership di una turbolenta realtà geografica così instabile.

Gli elementi tecnici

Riepilogando gli elementi “tecnici” dell’informazione di garanzia recapitata ai massimi esponenti governativi italiani, viene in primo luogo da richiamare l’art. 378 C.P., inserito tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia. La norma al primo comma afferma che “chiunque” (ergo, dal comune cittadino al pubblico ufficiale) – dopo aver commesso un delitto per il quale la legge stabilisce una pena reclusiva elevata – “aiuta” taluno a eludere le investigazioni dell’autorità (“comprese quelle svolte da organi della Corte Penale Internazionale”) o “a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti”, è punito con la reclusione fino a 4 anni. Significativo è il richiamo al criminalizzato “aiuto” a chi è colpito da indagini della Corte Internazionale – inciso inserito successivamente nella norma rispetto al testo originario – al fine proprio di armonizzare il Codice Penale agli assunti impegni internazionalistici, derivanti dal riconoscimento della giurisdizione della CPI. L’altra formula giuridica evocata è quella prevista e punita per il delitto di peculato (art. 314 C.P.), in quanto la pecunia pubblica, sottoforma di viaggio aereo, avrebbe costituito un tassello della condotta favoreggiatrice. Sia la scelta omissiva del Guardasigilli (da cui sarebbe scaturito il predetto vizio formale) che quella propulsiva del ministro dell’Interno – che ha disposto l’espulsione del generale libico Almasri una volta scarcerato – sono caratterizzate da ampia discrezionalità che assume veri e propri contenuti di politicità: l’astratta valutazione penalistica dovrebbe necessariamente fare i conti – in tesi – con aspetti che esulano dallo stretto paradigma applicativo dello schema di reato, per inglobare profili del tutto eccezionali sino a ipotizzare l’attrazione dell’intero accaduto sotto lo scudo del segreto di Stato (art. 272 CPP; cfr, Corte Costituzionale sentenza n. 40/2012).

L’attività legittimata che non funziona

Ma il paradigma che legittima l’attività dei pubblici poteri, per una sorta di “riserva di amministrazione” (qui declinata nel senso più elevato, ovverossia dell’atto politico), per tradizione costante e insindacabile dal giudice penale, non funziona nello specialissimo episodio che ha dato la stura all’informazione di garanzia, detonata nel mondo politico italiano. Occorre osservare che, nella presente fattispecie, ad Almasri è imputata un’attività criminosa – oltre che omicidiaria – di tortura. Risuonano le parole della Corte Costituzionale che, nella sentenza sul caso Regeni, ha enunciato princìpi granitici sull’inescusabilità di ogni condotta che si riconduca alla tortura: tale è la sua valenza criminogena da consentire – come si sta svolgendo proprio nella nostra Capitale – finanche un processo in absentia dei ritenuti torturatori del ricercatore italiano.

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Il Tribunale dei ministri

La questione, dunque, è del tutto nuova e dagli esiti imprevedibili. Ai commenti incandescenti può però opporsi il filo della ragione giuridica calmieratrice: bisogna considerare che la vicenda – nella sua totalità – deve essere traguardata nello schema costituzionale del c.d. Tribunale dei ministri e dell’autorizzazione di Camera e Senato, sicché anche l’informazione di garanzia (recapitata alla presidente del Consiglio e ad altri esponenti governativi) s’inscrive in quel circuito obbligato. Il ventilato pericolo che la riforma costituzionale sulla giustizia sia sabotata da questa iniziativa giudiziaria, quindi, è annullata da altra legge costituzionale (L. Cost. n. 1/1989), secondo cui (art. 6) le denunzie concernenti i reati indicati dall’articolo 96 della Costituzione sono presentati o inviati al procuratore della Repubblica: “omessa ogni indagine”, entro il termine di 15 giorni, il predetto procuratore trasmette con le sue richieste gli atti relativi al c.d. Tribunale dei ministri (art. 7 L. Cost. n. 1cit.), “dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie”. È quello che sinora sembra sia avvenuto. Può allora concludersi che – sino a quando la procedura si manterrà nell’alveo stretto del procedimento costituzionalizzato – la tenuta dell’intero sistema e della “cerniera” tra politica e potere giudiziario potrà ritenersi rispettata, senza pericoli di sospette strumentalizzazioni.





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