Caro biglietti a festival e concerti? Non fatevi fregare (due esempi virtuosi) – Soundwall

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Ogni tanto sembra di ululare alla luna, quando si parla di caro-biglietti ai concerti: tu lo fai, ti prendi un sacco di applausi lì per lì da chi ti legge o ascolta, peccato però che i pezzi dei biglietti dei grandi eventi – ma anche di quelli medi – non calano per niente, ed anzi i primi eventi ad andare sold out sono quelli coi prezzi più oltraggiosi, più gonfiati. Quando questo succede, tu – che ti esponi dicendo che la musica dal vivo è iniziata a costare troppo e rischia di diventare una faccenda di elite, rendendo il live un “gioco per ricchi” – ti senti un po’ un idiota, un menagramo. O uno che non ha capito niente, e lancia allarmi completamente fuori fuoco.

Per fortuna che poi arriva un Robert Smith, il frontman del leggendari Cure, e ti senti un po’ meno solo. Oh sì. Non solo Smith si è scagliato contro il fenomeno del dynamic pricing (aka, se c’è tanta richiesta alzo il biglietto dei prezzi a dismisura, senza freni), non è solo questo: ha proprio fatto un discorso complessivo e molto sensato sul fatto che mantenere umani i prezzi dei biglietti senza gonfiare spese di produzione e margini crei tutto un circolo virtuoso che fa del bene a tutto e ribadiamo tutto l’ecosistema che circonda la musica (qua potete leggere un efficace sintesi), invece di beneficiare solo ed unicamente ben specifiche categorie di avidi: i grandi gruppi multinazionali, che ammazza se sono avidi, i management degli artisti, e pure qui non si scherza da anni a questa parte, gli artisti stessi – e proprio questi ultimi sarebbero in cima alla catena, potrebbero cioè spezzare questa folle corsa al rialzo, ma poverini fanno in allegria come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo, e mi godo il conto in banca. Per i fan, bastano le parole d’amore (qualche volta manco quelle…) sul palco, sui social, nelle interviste… quando queste ultime ci si degna di farle, beninteso, perché ormai fanno fatica pure quelle – meglio un testo preconfezionato e banalissimo su Instagram, senza contraddittorio, solo lustrando il proprio ego e contando i cuoricini. O no?

Siamo polemici? Siamo polemici. Ma siamo polemici anche con chi è o sarebbe appassionato di musica, oh sì, quindi magari anche con te che stai leggendo: perché è più di un decennio che si è sempre più schiavi della “logica dell’evento”. Logica per cui si va solo ai grandi festival e ai grandi live dei grandi nomi, stop; mentre il tessuto prezioso dei live club, dei gruppi emergenti, delle realtà indipendenti, delle proposte non omologate soffre le pene d’inferno e viene ritenuto un contesto sfigato non meritevole d’attenzione e di supporto. Se non a parole, il supporto, lì magari arriva, nei commenti su quel brontosauro di Facebook o sulla garrula piazza di Instagram; ma qualche volta manco quello. Meglio riempire di entusiasmo il profondissimo post di questo o quel famoso che scrive “It’s a great day, today in Tulum”.

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Il risultato di tutto questo, di queste dinamiche che ormai sono collettive, ossessive, pervasive? I soldi immessi nel circuito dell’industria musicale sono sempre di più (biglietti acquistati, sponsorship delle aziende…), sì che lo sono, almeno per ora, solo che vanno a chi ne ha già, a chi ne avrebbe meno bisogno, soffocando invece la parte oggettivamente più “sana” dell’ecosistema – quella che agisce in primis per passione e solo eventualmente in secundis per il soldo, ammesso e non concesso che il soldo ci sia. Non è una bella situazione.

Non è una bella situazione ma appunto, finché la gente paga senza battere ciglio cinquanta, sessanta, cento, centoventi euro per un singolo concerto (e trenta, quaranta, cinquanta euro per gruppi di medio cabotaggio che fino a cinque, dieci anni fa potevi vedere con dieci, quindici euro), non cambierà mai granché. Se vi state lamentando che vi stanno spennando, è perché siete voi per primi ad accorrere lieti fra le braccia di chi vuole trasformare in brodo, pardon, fatturato.

In questo contesto, ci fa piacere segnalare un paio di cose: il festival outdoor più grande d’Italia, Nameless, ha messo in vendita gli abbonamenti standard per i tre giorni ad un prezzo veramente onesto, 130 euro più diritti vari, e se mai siete stati a quel festival ed avete visto lo sforzo produttivo sui palchi e gli effetti speciali (oltre a considerare lo spessore economico degli ospiti on stage) vi potete ben rendere conto di quanto questa sia una cifra bassissima, incredibilmente bassa (per dire: era il prezzo degli Early Bird super-scontati di Kappa FuturFestival, che peraltro pure lui con gli abbonamenti attualmente a 190 euro è da annoverarsi tra gli onesti e i morigerati, visto che quello che offre in line up, approfittatene prima che si salga a 260 euro per i tre giorni).

(L’anno scorso il Main Stage era così; e quella “N” che vedete a destra è formata da droni, non è post-produzione della fotografia; continua sotto)

L’altra cosa da segnalare è La Prima Estate: il festival versiliano si è a quanto pare allontanato dalla “nostra” musica, visti anche i risultati non eclatanti anzi proprio miseri di qualche serata (ehi, ciao 2 Many Dj’s e Phoenix!), ma per il 2025 invece di arrendersi ha rilanciato mettendo in campo un cartellone non certo soundwalliano ma davvero di grande, grande rispetto. Lo potete vedere qua sotto. Ciò che ci preme sottlineare è che fino al 6 febbraio il prezzo di lancio per gli abbonamenti è 100 euro più diritti vari: pochissimo. Una scelta forte. Chiaro: in questo momento bisogna comprare l’abbonamento a scatola chiusa (non si sa ancora come saranno suddivisi nei tre giorni i vari nomi annunciati, vi dovete voler vedere tutto in blocco), resta sempre l’annoso problema della refrattarietà del territori ad accogliere bene i visitatori del festival (leggi: mancanza di offerte speciali e pacchetti umani per dormire), il festival deve ancora migliorare nella gestione del food&beverage e delle code (ma passi in avanti sono stati fatti). Tutto vero. Così come è vero che, non ci nascondiamo, ad essere malevoli La Prima Estate è un “gioco” in mano ad una realtà grossissima come D’Alessandro & Galli, che può permettersi almeno per un po’ di avere un festival in perdita pur di presidiare una fetta di mercato.

(Il primo lancio de La Prima Estate; continua sotto)

Tutto vero. Ma è anche vero che lanciare un festival con questi nomi, di questo spessore, con questa qualità e mettere tutto quanto a 100 euro più prevendita almeno nei primi sette giorni di prevendita è un segnale forte, per nulla banale, esattamente come lo è quello di Nameless a 130 euro. Non vogliamo fare i luddisti, non vogliamo fare i pauperisti: non vogliamo che agenzie, management e musicisti girino coi sandali e il saio, parlando agli uccelli e predicando il “prezzo politico” dieci-euri-può-bastare come negli anni ’70, per carità; sappiamo che più fatturato si genera, più posti di lavoro temporanei o anche stabili si creano, quindi evviva la crescita; ma ribadiamo con forza che le dinamiche attuali sono quelle spinte dal capitalismo più sfrenato e cinico, quello che può diventare una bolla, una cellula tumorale per il sistema, dove sì si cresce, ma non in maniera sana e organica bensì privilegiando invece gli appetiti, le abilità e i vantaggi competitivi di chi è più avido, cinico e grosso. Ci torneremo sopra, su tutto questo. Ma intanto è bello iniziare il 2025 segnalando degli esempi virtuosi, positivi.

Ah, one last thing, un’ultima cosa su Nameless: quando l’anno scorso ha deciso di rendere gratuiti acqua e parcheggi per tutti, considerati le spese e i mancati guadagni ha scientemente deciso di rinunciare a qualcosa tra i 300 e i 400.000 euro. Quindi ecco, non datela per scontata, questa mossa. Ha avuto un peso economico non indifferente. I parcheggi potevano restare a 20 euro (in altri festival costano altrettanto, se non di più), l’acqua a 2 o 3 euro: venire incontro agli spettatori su questi due aspetti è costato come un trilocale a Bologna o Napoli (o un bilocale a Milano o Roma), tutti i soldi che a fare finta di nulla il team di Nameless si poteva tranquillamente mettere nelle proprie tasche. Pensateci. Cercate di premiare chi non vi tratta solo come galline da cui estrarre più brodo, pardon, più fatturato possibile. Se non lo fate, non cambierà mai un cazzo.

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…fino a quando la bolla esploderà, e a farsi male saranno in tanti, tantissimi, per primi quelli che non se lo meritano: perché va sempre così. Ecco perché Robert Smith e – nel nostro piccolissimo – pure noi rompiamo tanto le scatole sull’argomento, e ci rende sgomenti che chi avrebbe voce, dovere e potere fa invece astutamente finta di nulla. Non è una bella cosa. È un ascensore, dorato, verso il disastro.



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