Trump e la fine ingloriosa della Minimum Tax per le multinazionali

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“Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione” era il titolo di un fortunato volume scritto ancora negli anni ’90 da autorevoli giuristi – fra i quali Sabino Cassese, Tiziano Treu e Giulio Tremonti – che con una certa lungimiranza sollevava il problema del rischio politico della globalizzazione. In un mondo in cui le imprese possono spostare la sede fiscale da un Paese all’altro in base alle proprie convenienze, si sarebbe fatalmente indebolita la capacità degli Stati di assicurare beni pubblici, welfare e l’insieme di politiche redistributive che risultano fondamentali nelle democrazie moderne.

Il rischio si è nel tempo aggravato a causa della smaterializzazione dei processi produttivi conseguente all’avvento dell’economia digitale. Diversamente da una fabbrica manifatturiera, per una Big Tech risulta abbastanza facile attribuire la vendita dei propri beni intangibili a una filiale insediata in un paradiso fiscale, anche se i luoghi fisici nei quali risiedono i fattori che hanno effettivamente contribuito alla loro produzione – capitale umano, strutture, attrezzature – sono situati da tutt’altra parte.

In questo modo la tassazione alla fonte risulterà irrisoria, mentre il luogo di produzione effettiva, che pure deve assicurare infrastrutture e beni pubblici necessari a tale produzione, non riceverà il corrispondente gettito fiscale. Nemmeno sui mercati di vendita si vedranno grandi benefici, se non nelle imposte sul valore aggiunto, che risulterà tuttavia ridotto a causa dei maggiori costi fatti registrare alla fonte.

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Una recente ricerca pubblicata su Nature communications ha messo in luce come la rapida crescita dei “prodotti digitali” – insieme di beni immateriali scambiati nelle reti digitali, quali software, e-book, video-games, ma anche social media, servizi cloud e molte transazioni che si sviluppano su piattaforme come Airbnb, Amazon o Uber – sta profondamente modificando la geografia del commercio mondiale.

Mentre la rete degli scambi di beni materiali mostra una densa rete di Paesi esportatori e importatori – fra i quali emergono le principali economie industriali come Cina, Germania, Giappone e Italia, oltre al Nord America – quella dei prodotti digitali risulta invece piuttosto a-simmetrica: molti i Paesi importatori, pochi invece i grandi esportatori, essenzialmente Stati Uniti, Irlanda, Lussemburgo e Isole Cayman.

Appare fin troppo evidente come questa a-simmetria si possa spiegare con le strategie di elusione fiscale delle Bigh Tech, stimata in un valore che può arrivare a 200 miliardi di dollari all’anno.

Per contrastare questa spaventosa e ingiusta sottrazione di gettito, da oltre un decennio l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) ha promosso una complessa trattativa internazionale per raggiungere un accordo fiscale tra Stati basato su due pilastri. Il primo è riallocare parte dei profitti delle grandi multinazionali (con un fatturato globale superiore a 20 miliardi di euro e una redditività superiore al 10% del fatturato) dal luogo in cui dichiarano di produrre reddito, che abbiamo visto non essere molto credibile, al mercato in cui realizzano le vendite.

Il secondo pilastro imporrebbe una tassa minima del 15% sugli utili societari globali in base alla residenza della società. L’accordo sulla Global Minimum Tax sembrava essere stato finalmente raggiunto nel 2021 in occasione del G20 di Roma, sotto la presidenza italiana di Mario Draghi, e sarebbe dovuta partire nel 2024, al punto che diversi Paesi avevano inserito nella propria legge di bilancio le entrate fiscali corrispondenti. Il governo italiano ha infatti previsto entrate da questa fonte per 400 milioni di euro.

Per quanto la Global Minimum Tax antielusione fosse in fase di ratifica in oltre 100 Paesi, a rimettere nuovamente tutto in discussione ci ha pensato Donald Trump: tra i tanti decreti firmati al suo insediamento alla Casa Bianca ce n’è anche uno che blocca l’accordo fiscale promosso dall’Ocse. L’obiettivo, come recita il memorandum di ritiro dal Global Tax Deal è «recuperare la sovranità e la competitività economica della nazione», minacciando di ritorsioni i Paesi che avessero applicato le nuove norme fiscali alle imprese americane.

Il paradosso è che un accordo nato dalla necessità di recuperare la sovranità fiscale nei confronti dei grandi gruppi multinazionali, si infrange contro la pretesa sovranità del più forte. Infatti, delle 200 multinazionali al mondo con un fatturato superiore ai 20 miliardi – e che perciò potevano essere sottoposte all’accordo sulla tassazione nel paese di vendita dei servizi – 60 sono americane, tra cui tutte le Big Tech, nonostante questi gruppi ricavino la maggior parte del loro fatturato fuori dagli Stati Uniti. Anche da questa vicenda si capisce quanto sia oggi vitale poter contare su istituzioni multilaterali legittimate e un sistema serio e più equilibrato di cooperazione internazionale.



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