Esecutivo e legislativo in lotta con lo stato di diritto: nessuno forzi la magistratura

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La grande differenza tra la formazione fisica dei tre poteri dello Stato sta nella selezione. Per due di essi incide il criterio elettorale diretto, per quello legislativo parlamentare, e indiretto, perché quello regolatorio dell’esecutivo (decreti delegati) allorquando dipendente dal primo (legge delega). E il terzo che viene fuori a seguito del superamento di una dura prova concorsuale.

Con l’avvento dell’attuale Governo è iniziato un match diretto tra maggioranza politica e magistratura in senso lato, con una opposizione parlamentare largamente distante dalla competizione. Così il Governo – da una parte – e la magistratura – dall’altra – sono scesi in campo decisi a frequentare strade che appaiono, a volte, inquietanti anche sul piano del giudizio internazionale. Lo fanno con una prevalenza dell’Esecutivo a proporre DDL di revisione costituzionale, a formalizzare degli incipit della funzione legislativa, attraverso il ricorso ai decreti leggi di frequente non giustificati da straordinarietà e urgenza, e di perfezionamento regolativo, ricorrendo a leggi delega a maglie larghe.

Potere legislativo ed esecutivo a parte, ciò che preoccupa è la loro sinergia a sviluppare un progetto, sullo stile trumpiano, di sottomettere il terzo: quello giudiziario.

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Toccare la magistratura, nel senso di modificarne «il fisico» organizzativo per comprometterne «l’anima», a dispetto della Costituzione rappresenta un sacrilegio commesso dalla politica nei confronti del prodotto dei giudici: la Giustizia sostanziale. Un elemento fondante perché venga a non alterarsi lo Stato di diritto, di quello dal quale il magistrato dipende sul piano dell’impiego pubblico senza tuttavia alcuna dipendenza funzionale. Un modo perché il Giudice sia sempre e comunque dipendente e rispettoso solo della Costituzione e delle leggi.

Tentare percorsi legislativi, costituzionali e non, attraverso modifiche dell’apparato funzionale costituisce un pericolo grave, che genererà danni indicibili nel tempo. Ciò in quanto – per come sancito dal Montesquieu nel capitolo VI del libro undecimo del primo volume de Lo spirito delle leggi – «il sovrano …. fa le leggi per …. sempre, e corregge e annulla quelle che sono fatte». Nel mentre, il magistrato (si badi bene) «punisce i delitti o giudica le vertenze dei privati». Ma soprattutto, è chiamato a giudicare, nei diversi ambiti di giurisdizione, ogni genere di devianza alle leggi, anche di chi dovesse esercitare gli altri due poteri.

Toccare quindi l’organizzazione della magistratura e, con essa, reimpostare il criterio della sua funzionalità è cosa impossibile senza una larga condivisione sociale e degli interessati. È cosa da non fare, assolutamente. Si rischia di rompere il monolite della certezza del diritto e mettere in dubbio l’indipendenza della magistratura dalla politica, lasciando il cittadino inerme dalla tutele costituzionali.

Dunque, pollice verso sulla divisione delle carriere, che sgretolerebbe il principio costituzionale della sua caratteristica di garante granitico dell’assoluto rispetto del diritto nella indipendenza. Dividere le funzioni giudiziarie inquirente e giudicante, nei confronti della quale i magistrati nutrono un aperto dissenso, sarebbe causa del venir meno del loro aspetto «iniziatico», quello determinante la scelta lavorativa, tanto da sentire tradita la fiducia che nella Magistratura ebbero a riporre i Padri costituenti.

Pollice verso l’idea politica in atto di disimpegnare la magistratura dei controlli attraverso il Ddl Foti, Barelli e De Corato (1621), tale da rivederne al ribasso il suo impegno contro i danni erariali, con la buona pace delle politica esercitata nelle autonomie territoriali. Quel sistema autonomistico, fatto di Regioni ed enti locali nonché di enti comunque partecipati, che ha bisogno della maggiore tutela possibile in termini di legalità frequentemente violata, non già di attenuarla.

Gli emendamenti che si smentiscono vicendevolmente. Ciò sino ad arrivare al punto di prevedere anche qui – con uno dei tredici emendamenti presentati dai relatori il 28 scorso – la divisione delle carriere. Ma la cronaca parlamentare racconta anche di peggio. Lo fa con un (ri)emendamento proposto a quello con relatori Kelany e Pittalis, introduttivo dell’art. 2 bis nel Ddl 1621. Ma va anche oltre con l’emendamento 1.58, che ha- nella sostanza – l’intento di tranquillizzare le complicità latenti politica/dirigenza nella parte in cui attenua «il danno o il valore perduto per un importo non superiore al 30 per cento del pregiudizio accertato e, comunque, non superiore al doppio della retribuzione lorda conseguita nell’anno di inizio della condotta lesiva causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell’indennità percepiti per il servizio reso all’amministrazione o per la funzione o l’ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio». Un brutto esempio di sanzione sociale: una consistente franchigia sul danno prodotto alla PA a carico della collettività incolpevole!

Si raggiunge il massimo dello sconforto sull’ideale di Giustizia con un emendamento al Ddl Foti attraverso il quale si propone di burocratizzare la Corte dei conti, quasi a ricondurla ad un modello di tipo ministeriale. Quanto alle gerarchie, requirenti e giudicanti, imporrebbe per ciascuna un magistrato solo al comando. Si pensa, infatti, ad un controllo assoluto del Procuratore generale sui Procuratori territoriali, sancendo con la nullità ogni provvedimento emesso senza la sua firma nonché sanzionando il Procuratore del territorio inadempiente con l’affiancamento di un fiduciario della procura nazionale. E ancora. Il Presidente centrale e quelli regionali determineranno monocraticamente i criteri d’opera processuale svilendo e condizionando così l’importante convinta funzione dei rispettivi collegi giudicanti.



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