«Giovani in calo? Welfare debole»

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CREMONA – L’Italia ‘non è un paese per giovani’, si direbbe parafrasando il titolo dell’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, che è poi diventato il colossal dei fratelli Coen. La quota di giovani nel Paese cola infatti a picco, come dimostrano le indagini dell’Ufficio studi Cgia di Mestre: un’emorragia di 750mila unità nell’ultimo decennio, che si abbatte inevitabilmente sull’intero scheletro produttivo della Penisola. Perché oltre a perdere giovani, l’Italia perde forza lavoro.

Chiara Mussida, docente di Politica Economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, illustra nel dettaglio le conseguenze di questo trend, guardando alle trasformazioni in atto con una prospettiva di lungo periodo. «L’inverno demografico – premette Mussida – è un fenomeno che, a questo punto, sta diventando un tratto tipico del nostro Paese. È vero che la popolazione cresce, ma la quota di giovani continua a precipitare, al netto delle differenze regionali». Gli interrogativi si concentrano, immediatamente, sulle previsioni future. Che assumono, secondo Mussida, tinte fosche: «Di questo passo – spiega – entro il 2030 perderemo ancora 3 milioni di individui nella fascia 18-24 anni, stando a quanto rilevato dagli studi demografici di Banca d’Italia».

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Chiara Mussida

Dietro al decremento degli under-30 sarebbe possibile individuare un groviglio di cause, di natura demografica e economica. «Le ragioni del fenomeno sono articolate – prosegue Mussida – e la prima, nonché più evidente, è la bassa natalità, che in Italia si attesta a quota 1,24%. Siamo ben al di sotto del tasso di crescita suggerito da Eurostat, che dovrebbe essere almeno pari a 2,1%. Parallelamente a questo aspetto, c’è il tema degli ostacoli che il contesto professionale offerto dal territorio pone di fronte ai giovani: nello specifico, si può parlare di un mismatch tra le richieste di lavoro e le aspettative dell’offerta, che ricerca competenze che non sempre sono quelle che i giovani possiedono».

Anche nel contesto locale, parlando della provincia di Cremona e di quelle limitrofe, il problema dell’integrazione professionale si fa ugualmente sentire, al di là di alcuni cenni di crescita. «Piacenza è caratterizzata da una presenza importante di forza lavoro straniera – argomenta Mussida – e un discorso analogo riguarda il caso della provincia di Cremona. Esaminando più da vicino, vediamo che, in gran parte dei casi, si tratta di lavoratori impiegati in attività che non richiedono un alto grado di qualifica».

La soluzione al problema? Prima di tutto, più resilienza da parte delle imprese, che dovrebbero pensare di adattare la propria offerta di lavoro al mutato contesto socio-culturale. «Le imprese – spiega Mussida – potrebbero cercare di adeguarsi ad altri modelli, che in Italia non hanno preso particolarmente piede e che invece si stanno dimostrando più attrattivi. Si tratta, in altre parole, di offrire un’alternativa alla ‘fuga di talenti’, un fenomeno che in Lombardia è particolarmente diffuso. Chi dispone di una laurea o ha completato con successo un percorso superiore preferisce cercare altrove la gratificazione che si aspetta, in termini di orario lavorativo e di salario. Con queste premesse, accade che i modelli produttivi di stampo svedese riescono a catturare la forza lavoro che in Italia si va a perdere».

Parallelamente, pubblico e privato devono impegnarsi a studiare misure di conciliazione adeguate al ‘nuovo’ mondo del business. «Le grandi dimissioni dopo la pandemia (‘great resignation’) provano che il lavoratore chiede flessibilità e benessere. In altre parole, una maggior attenzione al welfare aziendale, a partire dal nido in azienda per le donne-manager».

Esisterebbero, secondo Mussida, anche contromisure politiche, capaci di sostenere la natalità. Non può trattarsi, però, di rammendi dell’ultimo minuto. «Se si vuole supportare la natalità nel Paese – sottolinea Mussida – non ci si può limitare al conferimento di un Bonus una tantum. Serve un sostegno che sia in grado di durare nel tempo. Il mantenimento di un figlio prosegue ben oltre i primi anni della sua vita, per almeno 20 anni». Se la tendenza rimane immutata, le conseguenze potrebbero scardinare una fetta importante del sistema economico. «Tra queste – conclude Mussida – c’è il tema della sostenibilità del sistema pensionistico».

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