come sta cambiando il sistema mediatico

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Dalla stampa, radio, Tv, affissioni all’era multi, non più solo mediale ma dimensioni. Il sistema mediatico sta subendo una vera e propria rivoluzione. Cosa c’è di definibile adesso? Lo abbiamo chiesto a Anthony Cardamone, managing director di Ebiquity Italia, multinazionale leader nelle analisi dell’investimento media.

In quale direzione sta andando il sistema mediatico?

Per molti anni, i mezzi di comunicazione si sono sviluppati in modo parallelo e le persone li utilizzavano per attività ben distinte: guardare la Tv, ascoltare la radio, leggere il giornale. Di conseguenza, ogni mezzo definiva in modo chiaro e preciso la forma pubblicitaria, il contenuto del messaggio e la tipologia di contatto con il pubblico. La digitalizzazione ha però trasformato questo scenario, separando il mezzo dalla forma pubblicitaria. Oggi si parla di tre principali formati di comunicazione: video, audio e statica. Un messaggio video, ad esempio, può essere veicolato in televisione, sul mobile o su un impianto outdoor, indipendentemente dal mezzo.  Questa evoluzione ha reso le strategie di comunicazione più complesse, poiché devono adattarsi a mezzi e formati differenti, ognuno con logiche specifiche di pianificazione, acquisto e gestione.

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Quindi si pone un problema di lettura di questo nuovo sistema?

Questo cambiamento porta diverse sfide nella lettura e nell’interpretazione delle campagne pubblicitarie, tra cui: disomogeneità nella misurazione delle performance: in passato, ogni mezzo aveva metriche chiare e consolidate (grp per la Tv, readership per la stampa, reach e frequency per la radio). Oggi, la stessa creatività video può essere distribuita su Tv lineare, social media, digital out-of-home (dooh) e ctv, ognuno con metriche diverse (viewability, completion rate, engagement, etc.), rendendo difficile un confronto omogeneo. Difficoltà nel calcolare la copertura incrementale: con la sovrapposizione tra mezzi e formati, diventa più complesso stimare la reale copertura incrementale e la deduplicazione dell’audience tra i vari touchpoint. Ad esempio, un utente può vedere lo stesso spot su YouTube, in Tv e su un impianto outdoor, ma oggi i modelli di attribuzione spesso faticano a identificare questa ripetizione. Sfide nella costruzione della frequenza ottimale: in passato, la frequenza era gestita in modo relativamente semplice su singoli mezzi. Oggi, con la frammentazione tra piattaforme digitali e tradizionali, il rischio è di sovraesporre alcuni utenti e nasconderne altri, senza un controllo centralizzato sulla pressione pubblicitaria. Integrazione tra logiche di acquisto diverse: gli acquisti media tradizionali (TV, stampa, radio) si basavano su modelli di prenotazione anticipata (fissi e garantiti).

Qual è il ruolo del digitale?

Il digitale introduce logiche programmatiche, basate su aste in tempo reale, targhettizzazione granulare e metriche di performance. La coesistenza di questi due mondi rende più difficile ottimizzare i budget in modo fluido e reattivo. Difficoltà nella valutazione dell’impatto creativo: ogni formato ha regole di fruizione diverse (ad es. uno spot Tv da 30” non ha la stessa efficacia in una versione skippabile da 5” su YouTube). Questo impone un ripensamento nella produzione delle creatività, con adattamenti che spesso devono essere testati e ottimizzati in tempo reale. Attribuzione e misurazione cross-channel: la separazione tra mezzo e formato complica l’attribuzione del contributo di ogni touchpoint al risultato finale. I modelli last-click sono obsoleti, mentre quelli multi-touch rimangono complessi e spesso poco trasparenti. In sintesi, la separazione tra mezzi e formati ha portato una maggiore flessibilità, ma anche una maggiore complessità nella lettura delle performance. La sfida principale è costruire modelli di misurazione capaci di integrare logiche tradizionali e digitali in modo coerente ed efficace.

Grandi opportunità dunque. Ma quali sono (ci sono?) i lati oscuri della forza? 

Gli investitori pubblicitari, soprattutto nel digitale, devono affrontare diversi rischi legati alla frammentazione dei formati e alla complessità delle misurazioni. Tra i principali c’è il rischio di dispersione del budget: la frammentazione tra mezzi e formati porta a una dispersione degli investimenti su molte piattaforme diverse, con il rischio che il budget possa venire sprecato su audience sovrapposte o poco rilevanti. La difficoltà nella misurazione e nella trasparenza: le piattaforme chiuse (walled gardens) limitano l’accesso ai dati di prima parte, rendendo difficile una valutazione imparziale delle performance. il rischio di frodi pubblicitarie (Ad Fraud): il digitale è soggetto a fenomeni di frode pubblicitaria, come fake impressions e bot traffic ovvero annunci serviti a utenti falsi o non umani; domain spoofing, siti malevoli che si spacciano per editori premium per attirare budget pubblicitari; Ad stacking e pixel stuffing, annunci caricati sovrapposti o in pixel invisibili che generano impression non viste. La mancanza di controllo sulla brand safety: gli annunci digitali possono finire in contesti inappropriati o non in linea con il brand. La crescente diffusione dell’User-Generated Content (UGC) sui social aumenta il rischio di posizionamento accanto a contenuti inappropriati. Le logiche di attribuzione inefficaci: i modelli di attribuzione sono ancora poco maturi: il last-click attribution penalizza formati di awareness a favore di touchpoint a fine funnel. Il multi-touch attribution (MTA) è complesso da implementare e soffre delle limitazioni dei walled gardens. La dipendenza dagli algoritmi delle piattaforme: gran parte della pubblicità digitale è gestita da piattaforme con algoritmi proprietari, che decidono come distribuire gli annunci. Gli investitori digitali devono affrontare un mercato sempre più complesso e rischioso. Per mitigare questi problemi, è essenziale adottare strategie di controllo in particolare l’utilizzo di soluzioni di misurazione indipendenti per verificare la qualità delle impression e l’efficacia delle campagne; investire in dati di prima parte per ridurre la dipendenza dai cookie di terze parti; affidarsi a partner certificati per garantire brand safety e trasparenza; usare modelli di attribuzione avanzati per comprendere il vero contributo di ogni touchpoint. L’evoluzione del digitale offre enormi opportunità, ma solo chi è in grado di navigare questi rischi potrà ottenere un vero ritorno sugli investimenti.

L’ Ai ovviamente può dire la sua nella misurazione dei nuovi ‘ascolti’. Anche in questo caso grandi cambiamenti in vista vero?

Sì, l’intelligenza artificiale (AI) sta rivoluzionando la misurazione della pubblicità in diversi modi, migliorando precisione, efficienza e capacità predittive. Tra le principali aree in cui l’AI sta facendo la differenza trovo fondamentale l’applicazione delle tecniche di apprendimento automatico che stimano le probabilità di conversione basandosi sulle interazioni passate degli utenti; ancora la misura della viewability  e dell’attention per valutare la reale efficacia e visibilità di un annuncio considerando quanto il tema dell’attention metric oggi sia rilevante; ma anche l’ottimizzazione tramite intelligenza artificiale dei contenuti pubblicitari poiché l’algoritmo può modificare e testare la creatività, i colori, i formati, ecc. personalizzandoli in base al comportamento degli utenti, al contesto di visualizzazione e non da ultimo la capacità dell’automazione di migliorare l’efficacia degli acquisti programmatici adattando le offerte in base ai dati e  l’identificazione, l’analisi e prevenzione delle frodi pubblicitarie (Ad Fraud Detection) attraverso algoritmi di machine learning che rilevano attività sospette (pattern recognition) e monitorano in tempo reale la qualità delle impression (Ad verification AI).

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Avanti a noi c’è l’indice di gradimento personale che ha alimentato tante serie tv…?

L’avvento dell’on-demand ha trasformato in modo strutturale il mondo dell’audiovisivo. Il modello tradizionale del broadcast si è sempre basato sul tempo di permanenza del pubblico davanti allo schermo, non solo sulla vendita di contenuti. La televisione, infatti, non vende solo programmi, ma tempo degli spettatori, che viene monetizzato attraverso la pubblicità. Il paradigma della TV lineare prevedeva che le persone scegliessero prima il mezzo (la televisione) e poi, facendo zapping, trovassero il contenuto che più le interessava. Per un editore, quindi, la sostenibilità economica si basava su un delicato equilibrio: programmi di punta capaci di attrarre grandi audience e contenuti a basso costo che riempivano il palinsesto, ottimizzando i costi complessivi. Piattaforme come YouTube, TikTok e i social network hanno replicato questo modello, ma con una differenza fondamentale: il tempo di permanenza viene massimizzato da algoritmi che selezionano automaticamente i contenuti più coinvolgenti in base anche alle preferenze degli utenti ed in modo sempre più custom e targettizzato. Il costo di produzione, però, è quasi nullo, perché i contenuti sono generati dagli utenti. È proprio questa assenza di costi che ha reso queste piattaforme tra le aziende più redditizie al mondo: vendono un prodotto (il tempo degli utenti) senza doverlo pagare. Il mondo on-demand, invece, affronta una sfida molto più complessa. Per attirare e fidelizzare gli utenti, le piattaforme devono offrire costantemente contenuti premium, che hanno costi di produzione altissimi. Questo modello di business si scontra con una contraddizione evidente: una serie TV che costa decine di milioni di dollari può essere consumata in un weekend con un abbonamento da soli 10 euro. Questo rende il sistema economicamente insostenibile nel lungo periodo. Per questa ragione, le piattaforme stanno puntando su due leve per garantire la loro sostenibilità: l’inserimento della pubblicità e l’aumento del costo degli abbonamenti. La domanda è fino a che punto questo modello potrà reggere, considerando che: le piattaforme social non hanno costi di produzione né di distribuzione (come Meta, YouTube e TikTok); gli editori tradizionali hanno un equilibrio tra costi e ricavi, grazie alla pubblicità e a modelli di syndication consolidati. Dall’altro lato, la TV lineare fatica sempre più ad attrarre pubblico, soprattutto i giovani, abituati ad avere contenuti premium sempre disponibili e in grande quantità su mobile in qualunque momento ed ovunque con un click. La sfida dei prossimi anni si giocherà quindi tra tre modelli di business completamente diversi, ognuno con vantaggi e limiti distinti. Chi troverà la formula giusta per massimizzare ricavi e sostenibilità economica, senza perdere pubblico, definirà il futuro dell’intrattenimento.

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