Per le imprese Made in Italy i costi salgono di 7 miliardi, ma c’è la tenuta dell’export

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La nuova ondata di dazi trumpiani potrebbe costare alle imprese del Made in Italy fino a sette miliardi di euro in più. Ma è l’ipotesi peggiore, considerando che la nuova amministrazione americana intenda tassare tutti i prodotti che ogni anno viaggiano sulla direttrice Italia-Stati Uniti. Al contrario, aumentando di una percentuale del 10 per cento l’imposizione sui beni già sottoposti a tariffe aggiuntive (come mobili, auto e mezzi di trasporto, agroalimentare o moda) il costo, anzi l’extracosto finale dovrebbe attestarsi sui 4 miliardi di euro.

In ogni caso non poco, visto che l’Italia vende negli Stati Uniti beni per un valore di 67,1 miliardi (dato 2023, in lievissimo calo nel 2024). Ma è una cifra per certi aspetti sostenibile se si pensa che gli Usa sono il nostro principale mercato, dove il business è costantemente cresciuto negli anni.

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I NUMERI

Le stime sugli extracosti per i produttori italiani sono state calcolate da Prometeia una settimana prima che Donald Trump venisse rieletto alla Casa Bianca. In attesa di capire i livelli di dazi che il tycoon vuole introdurre sulle merci europee (ieri ha annunciato un 25 per cento su acciaio e alluminio), questi numeri sono al momento i più credibili per comprendere gli effetti del nuovo protezionismo americano.

Spiega Alessandra Lanza, senior partner della società di consulenza e ricerca economica: «Intanto va detto che anche i dazi introdotti dagli Stati Uniti nel 2018 non hanno impedito all’Italia di aumentare le proprie esportazioni verso l’altra sponda dell’Atlantico». Infatti, fatta eccezione nel 2020 a causa del Covid, le vendite sono aumentate del 47,7 per cento dal 2019 a oggi. «Chiaramente questi extracosti – aggiunge l’economista – non aiuteranno le nostre aziende. Colpiranno soprattutto le piccole e medie, che fanno più fatica a investire sui loro prodotti. Il danno ci sarà, però gli imprenditori italiani sono molto flessibili, sanno trovare mercati di sbocco e si sono molto competitivi».

Al riguardo aggiunge Alessandro Fontana, a capo dell’ufficio studi di Confindustria: «I dazi del 2018 in alcuni casi hanno prodotto maggiori esportazioni negli Usa. Perché abbiamo sfruttato il fatto che le tariffe verso la Cina erano più elevate rispetto a quelle sui prodotti europei». Per aggiungere: «Occorre vedere anche il tasso di cambio: il dollaro si è apprezzato molto nell’ultimo periodo, per cui un dazio del 10 per cento quasi non avrebbe effetto».

Il tema quindi è complesso, ha viverse chiavi di lettura. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ieri ha fatto sapere, anche in relazione ai dazi sull’acciaio che potrebbero rallentare la vendita di Ilva: «Sono preoccupato dei ritardi europei nel rispondere alla sfida americana. Noi non dobbiamo reagire. Invece, bisogna agire e in via preventiva, perché i dazi sono la punta di un iceberg, ma sotto c’è la politica industriale ed energetica e quindi anche commerciale che l’Europa deve mettere in campo».

NEL MIRINO

Guardando ai settori che maggiormente potrebbero essere colpiti, si punta – tra quelli già colpiti da dazi e non ancora sovratassati – all’agroalimentare (7 miliardi di export nei primi 11 mesi del 2024), alla moda (5 miliardi), alla meccanica (11,4 miliardi), automotive in primis (3,3 miliardi), o alla farmaceutica (oltre 9 miliardi). «Personalmente – nota Lanza – non credo a un’estensione delle tariffe a meno che non si voglia scatenare una guerra commerciale. Per esempio, potrebbe essere controproducente inserire anche la farmaceutica, visto che molte aziende operative in Italia sono americane». E di fronte a una stretta commerciale? «In caso contrario, se si volesse colpire la meccanica, l’impatto sarebbe forte perché parliamo di un settore di riferimento in termini di spesa e capacità di innovativa».

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Valentina Meliciani, direttrice del Leap dell’università Luiss consiglia di non ragionare soltanto sui volumi di export. «I dazi – dice – rischiano di colpire settori italiani che sono in crisi, anche in termini occupazionali, come la moda o l’auto. In Italia produciamo molte vetture o motociclette amate dagli americani. E le restrizioni non avranno effetto soltanto sulle immatricolazioni, ma anche sulla filiera che produce la componentistica». Nella stessa direzione si muove Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e Duferco: «Dal 2018, anno in cui l’amministrazione Trump ha introdotto i dazi del 25 per cento sull’importazione di acciaio dai Paesi dell’Unione Europea, l’export italiano di acciaio verso gli Stati Uniti ha subito un drastico calo, passando da circa 600 mila tonnellate nel 2018 a meno di 200 mila tonnellate nel 2024». Con il risultato che adesso la siderurgia italiana esporta «prevalentemente acciai speciali, prodotti di alto valore il cui prezzo consente comunque di superare la soglia imposta dai dazi».

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