Depositate le richieste del Dipartimento di Giustizia americano, il giudice Mehta le valuterà entro aprile. Oltre alla vendita del proprio browser, Big G potrebbe dover intervenire anche su Android e i contratti miliardari con Apple. Una decisione che potrebbe scuotere le fondamenta dell’intero Web
Sarà la fine delle ricerche online come le conosciamo? Non si può ancora sapere con sicurezza. L’unica certezza arriva dalle 23 pagine che il Dipartimento di Giustizia americano ha presentato mercoledì 20 gennaio, dopo le numerose anticipazioni: il monopolio di Google sulle ricerche web deve essere smantellato. Per questo motivo, l’azienda di Mountain View potrebbe dover vendere il suo browser Chrome. Già a ottobre si parlava di «rimedi strutturali» e le conseguenze di questa decisione potrebbero cambiare non solo il panorama delle ricerche per miliardi di persone in tutto il mondo, ma potrebbe anche colpire in modo indiretto altre aziende (come per esempio Apple) che hanno un accordo con Google per usare il suo motore di ricerca come predefinito nei propri dispositivi. Di fatto, una scossa alle fondamenta del Web così come lo conosciamo oggi.
«Il Dipartimento di Giustizia ha scelto di portare avanti un programma interventista radicale che danneggerebbe gli americani e la leadership tecnologica globale dell’America», ha scritto in un post Kent Walker, presidente degli Affari globali di Google, aggiungendo che la proposta «distruggerebbe una serie di prodotti di Google — anche al di là della ricerca — che le persone amano e trovano utili nella loro vita quotidiana».
L’obbligo di vendere Chrome
La prima delle proposte per combattere questo monopolio è quella di vendere il browser Chrome, che oggi è il browser più popolare al mondo — con circa il 67% degli utenti, vedi sotto — e che rappresenta una pietra miliare per l’ecosistema di prodotti Google. Secondo Bloomberg, il valore di una tale vendita sarebbe intorno ai 20 miliardi di dollari, il che lascerebbe ben pochi acquirenti possibili. Come si legge nel documento, la vendita del browser «interromperà in modo permanente il controllo di Google su questo punto fondamentale di accesso alla ricerca e consentirà ai motori di ricerca rivali di usare il browser che per molti utenti è la porta d’accesso a Internet».
Fra le proposte ci sono anche quella di impedire al gigante della tecnologia di rientrare nel mercato dei browser nei cinque anni successivi alla decisione, ma anche quella di cedere Android, il sistema operativo per smartphone che è utilizzato nella maggior parte dei dispositivi mobili, o comunque impedire a Google di inserire le proprie app «obbligatorie» nel sistema operativo, se le soluzioni applicate falliranno nel ripristinare la competitività nel mercato delle ricerche online. Infine, Google non potrà investire in altre aziende concorrenti, in prodotti di intelligenza artificiali per la ricerca o in tecnologie per le pubblicità online. «Il comportamento illecito di Google ha privato i rivali non solo di canali di distribuzione critici, ma anche di partner di distribuzione che avrebbero potuto consentire ai concorrenti di entrare in questi mercati con modalità nuove e innovative»
Cosa significa per le altre aziende della tecnologia
L’impatto della decisione — che verrà valutata ad aprile da Amit Mehta, il giudice che ad agosto ha sancito il «monopolio» — potrebbe non colpire soltanto Google, ma anche la galassia di aziende che fanno affari con essa. Apple, per esempio, riceve dall’azienda di Mountain View almeno 20 miliardi di dollari all’anno per rendere il popolare motore di ricerca come quello predefinito sugli iPhone. Un accordo che potrebbe saltare, come richiesto dal Dipartimento stesso. Ma non solo. Uno dei rivali principali di Chrome nel mercato dei browser — Firefox — è realizzato dalla Mozilla Foundation. Che a sua volta riceve pagamenti annuali da Google per garantire la centralità del motore di ricerca anche su questo software. Ebbene, questa cifra si aggira attorno al mezzo miliardo di dollari, ossia più dell’80% dei guadagni totali di Mozilla. Che potrebbe rischiare di sparire.
Ma il tema non si conclude qui: la cessione di Chrome, come detto, potrebbe scuotere dal profondo le basi stesse del Web attuale, e non solo perché si disgregherebbe l’ecosistema del protagonista principale. Chrome è il prodotto commerciale di Google, un sistema proprietario chiuso ma che si basa sull’architettura informatica di Chromium, un browser a sua volta, distribuito con licenza libera. Ebbene, su questo software si basa non soltanto Edge di Microsoft ma anche altri attori minori del mercato: Opera, il russo Yandex, Duckduckgo e anche il browser utilizzato da Amazon sui propri tablet.
In sostanza, come spiega bene il New York Magazine, allo stato attuale chiunque «abbia intenzione di creare un prodotto sul Web, lo sta di fatto costruendo nel mondo di Google». Il motivo per cui la Federal Trade Commission diretta da Lina Khan — democratica — ha spinto per arrivare a questo processo, in attesa di capire cosa accadrà con l’insediamento del nuovo presidente, Donald Trump. Ma l’attuale realtà del Google-Web è anche il motivo per cui le richieste del Dipartimento di giustizia, a guida invece repubblicana, dovranno confrontarsi con la complessità dell’ecosistema commerciale che fa da sfondo alle attività della Rete.
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