Cosa può fare un abito contro gli anatemi del perbenismo? Può, in effetti. E molto. Pensiamo, ad esempio, alle affermazioni della designer Sonia Rykiel: “Che la polpa esploda attraverso le fibre, che si strappi e scoppi come in un quadro di Francis Bacon dove nulla si placa, e che coli, semplicemente” (Et je la voudrais nue, Grasset). Era il 1979, e nella frenetica progressione degli eventi del Sessantotto, dopo le poetiche della citazione, la Pop Fashion e il Minimalismo di Armani e Sander, Rykiel dà voce e tessuto a un’urgenza: quella di agitare i toni con implorazioni tanto viscerali da essere parificate alla carnalità pittorica di Francis Bacon. Sulle sue passerelle ha reclamato corpi senza veli, senza biancheria, senza gingilli: addio alla comfort zone, al facile concetto del “ti sta proprio bene” e alla sessuofobia. Poi, ha inaugurato l’inversione esterno-interno, esponendo trame e cuciture con soluzioni apprezzate da cultrici e cultori del work-in-progress come Rei Kawacubo, Miuccia Prada e Antonio Marras.
Uno smottamento di forme, una “guerriglia” dichiarata contro la moda che copre – “da una moda che si indossa voglio passare a una moda che si toglie” dichiarerà Issey Miyake – con soluzioni imperniate sulla messa in rilievo del corpo, visto attraverso strappi, buchi e usure. Può esserci molto fascino in un cappotto che sembra passato attraverso un frullatore, in jeans e camicie che sembrano portare i segni delle unghie di Freddy Krueger. La distruzione può essere una forma di ribellione. O, anche, di raffinatezza. Gli abiti tagliati – che risalgono almeno al Sedicesimo secolo, quando le dame alla corte di Enrico VIII potavano gonne con taglio a V sul davanti per mostrare la ricchezza della sottoveste – tendono a emergere in periodi di sconvolgimenti sociali. Nella storia recente, sono emersi per la prima volta sull’onda del movimento punk anni Settanta, i cui esponenti vestivano abiti precariamente tenuti insieme da spille da balia – abbiamo citato Sonia Rykiel, ma è necessario menzionare anche Vivienne Westwood.
Riemergono poi alla fine degli Ottanta, con la consacrazione a Parigi delle avanguardie provenienti dal Giappone e da Anversa. Designer come Martin Margiela, John Galliano, Rei Kawakubo e Issey Miyake feticizzano orli grezzi, cuciture e buchi. Gli abiti che Miyake espone alla mostra A-un (Musée Des Arts Décoratifs, 1988) sono vivacizzati da tumescenze e superfici brutalizzate, come risucchiati da un gorgo marino o da una raffica di vento. Infine, montati su manichini in fil di ferro, sembrano spettri fluttuanti: solo tessuto, logoro peraltro. La Primavera Estate 1992 di Galliano presenta sottovesti, seni esposti, velluti consumati, lunghi abiti neri con ritagli sul corpo e giacche di carta stagnola. “Questo è il look lingerie, mescolato a una sorte di miseria dickensiana. C’erano addirittura buchi nei vestiti”, commenta il New York Times.
Più di recente, l’usura ha preso piede nelle collezioni di Christophe Decarnin per Balmain, di cui è stato direttore creativo dal 2006 al 2011. La collezione Primavera Estate 2010, ad esempio, comprendeva una serie di cappotti da ufficiale foderati in rete, strappati e malconci per rivelare non i broccati di Enrico VIII, ma tramagli d’oro. Un invito che è stato allora accettato dalle grandi catene mainstream nella forma di maglie con buchi preconfezionati e canotte tagliuzzate.
Ma non così in fretta. In forma diversa, anche il biennio 2024/2025 ha il suo carico di forbici ed esplosivi per dar fuoco alle polveri della moda 2022/2023. Tra gli altri, Miuccia Prada e Raf Simons hanno sfidato le camere d’eco dello stile con una Primavera Estate 2025 che mostrava tutti gli effetti corrosivi delle nostre vite online. Per il duo, i nemici di oggi non sono i benpensanti, ma gli algoritmi auto-generati, da combattere a suon di minigonne metallizzate da guerriera della strada, camicie da dirigente con colletti arricciati, quasi fossero sferzati dal vento, o, ancora, gonne attraversate dai buchi di una tempesta di asteroidi. Se non puoi battere l’algoritmo, devi romperlo, bucarlo.
Lo ha compreso anche Grace Ling, che alla New York Fashion Week di settembre si è distinta con corsetti in alluminio stampati in 3D ‘spezzati’ in modo primitivo – la collezione si chiamava, non a caso, Neanderthal. Dimitra Petsa, fondatrice della Maison Di Petsa, ha presentato in passerella abiti effetto bagnato, gioielli talismanici per capezzoli, pantaloni drappeggiati in mesh con tasche logore all’altezza dell’inguine: “Sono disegnati per sembrare davvero corrosi”, ha sottolineato la stilista. Da Who Desides War l’ispirazione vittoriana si è consumata in abiti a colonna drappeggiati con tessuti accuratamente logori: “Non puoi avere bellezza senza un po’ di rovina” ha spiegato Téla D’Amore. Alle ultime presentazioni newyorkesi Elena Velez ha affondato gli abiti negli abissi, tra volant bianchi che ricordavano la schiuma del mare, corde, reti e chiusure luccicanti come tesori sommersi. Sul fronte couture, il tema è stato indagato da Ludovic de Saint Sernin per Jean Paul Gaultier: in Le Naufrage il designer ha flirtato con il rischio della caduta, fra pizzi sgretolati, abiti tenuti insieme da reti e stringhe, gonne rovesciate e fili che penzolavano: non c’era la forza incontenibile dei tagli di un Margiela, ma era un inizio.
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