È noto che numerose persone esercitano attività di impresa attraverso appositi prestanome – anche detti “teste di legno” – al fine di mascherare il loro coinvolgimento in una o più attività economiche.
Tale prassi trova il proprio fondamento nei motivi più disparati, non sempre leciti e, anzi, è divenuta “la regola” nell’ambito della criminalità organizzata fare ricorso proprio a prestanome al fine di mascherare la riconducibilità di attività economiche.
Vien da chiedersi, quindi, proprio in relazione all’ampio utilizzo di prestanome in ambito criminale, quale sia la responsabilità penale dello stesso con riferimento a quei reati che possono essere commessi dal reale dominus dell’impresa (il c.d. “amministratore di fatto”) nel corso dell’operatività aziendale.
Al riguardo, in tema di reati fiscali, si è recentemente espressa la Suprema Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. III, sent. 8 ottobre 2024, n. 37131), con cui è stata annullata la sentenza di condanna a carico di un amministratore di società per il reato tributario previsto dall’art. 2 D.Lgs. 74/2000.
Amministratore risultante essere solo firmatario delle dichiarazioni fiscali e mero prestanome, che – a detta dei Giudici di merito – non si sarebbe accorto di alcuni “segnali d’allarme” relativi al fatto che il dominus dell’impresa stava commettendo un reato fiscale.
La Corte, annullando la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello di Milano, ha evidenziato come la mera presenza di segnali d’allarme ignorati dal prestanome in merito al reato farebbe presumere la sussistenza di profili di colpa a carico del formale legale rappresentante dell’azienda, ma non permette di ritenere sussistente in capo allo stesso il dolo specifico di commettere il reato.
Sicché, secondo la Corte di Cassazione – affinché possa essere condannato il prestanome per un reato fiscale commesso de facto dall’amministratore di fatto – non basta che la “testa di legno” abbia accettato la carica di amministratore di una società, ma è necessario che sussistano elementi da cui desumere una sua volontà di commettere il delitto tributario e di consentire contestualmente a terzi di evadere le imposte.
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