Memoria e impegno comune per la legalità col presidio locale di Libera
Legnano – A gennaio del 2025 si costituisce il Presidio scolastico di Libera all’Istituto Barbara Melzi, al termine di un intenso percorso di formazione avviato con gli studenti e le studentesse delle scuole secondarie di secondo grado, intitolato a Marcella Di Levrano, giovane vittima innocente della Sacra Corona Unita.
Il Presidio territoriale di Libera in collaborazione con l’Istituto Barbara Melzi, ha organizzato, venerdì 21 febbraio, presso il teatro della Scuola, un appuntamento per conoscere le storie di alcune vittime innocenti delle mafie e riflettere in vista della Giornata della Memoria e dell’Impegno. Vi hanno partecipato Marino Cannata, figlio di Domenico; Francesca Bommarito, sorella di Giuseppe e Stefano Mattachini, nipote di Giorgio Ambrosoli.
Gianpiero Colombo, referente locale di Libera contro le mafie definisce così l’incontro “Una serata veramente emozionante con testimonianze di persone normali, per certi versi vicine alla nostra vita, che hanno dato una testimonianza di grande responsabilità e coraggio, sacrificando la vita per i valori di legalità e di servizio alla comunità”.
Sono stati ricordate le vittime di mafia
Domenico Cannata
Nato il 15 gennaio del 1925 a Polistena, un grosso centro della piana di Gioia Tauro, distante circa 75 chilometri da Reggio Calabria. La sua è una famiglia umile e onesta. Ben presto sceglie di seguire le orme del suo papà e diventare elettricista come lui.
È un uomo che si fa da solo Domenico, e, a seguito di anni di duro lavoro, diventa un imprenditore nella lavorazione del marmo. Lavora bene, è preciso e attento ai dettagli tanto che gli affidano anche i lavori per la costruzione dell’altare nella chiesa di Polistena.
Si innamora di Concetta e la sposerà presto. Da quell’amore nascono 4 figli: Teresa, Marino, Francesco, Espedito. Domenico è un padre attento e amorevole, presente nella vita dei suoi figli, che ama gioire anche delle piccole cose quotidiane, dei primi passi dei suoi figli, delle loro prime parole e dei sorrisi quando si è a tavola tutti assieme. Un uomo normale, dedito al lavoro e alla famiglia.
Giorgio Ambrosoli
Nella vita privata, così come in quella professionale e a maggior ragione in quella pubblica, l’etica non può essere un obiettivo tra gli altri. La vera sfida che tutti noi abbiamo di fronte è quella di fare dell’etica il fondamento stesso di tutte le nostre azioni e di tutte le nostre scelte. La vera sfida è tradurla in gesti coerenti. Perché l’etica ha senso se chiama in causa l’integrità della nostra vita, se si sposa sempre con la responsabilità. Perché l’etica deve essere scritta nelle nostre coscienze prima che nei codici e nei protocolli. Ci sono storie il cui valore più grande è esattamente questo: averci consegnato la testimonianza concreta di uomini che hanno interpretato con radicalità il valore dell’etica come professione. Costi quel che costi. Quella dell’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli è una di queste storie.
È una storia complessa da raccontare e ricostruire, perché si dipana in un reticolo oscuro di connivenze, complicità, silenzi; nell’intreccio perverso e deviato di interessi indicibili, che hanno visto fianco a fianco la politica, l’alta finanza, la massoneria, la criminalità organizzata. Ma è anche una storia semplice di un uomo normale, di un padre affettuoso e un marito amorevole. Un “eroe borghese” che credeva nel suo lavoro, nel suo Paese, nei suoi valori.
Giuseppe Bommarito
Era il quinto di sette figli. Era nato a Balestrate, in provincia di Palermo, il 14 luglio del 1944, da una famiglia umile e onesta. Suo padre Salvatore di giorno coltivava la terra e di notte usciva a pesca. Un lavoratore perbene, che garantiva alla sua famiglia una vita dignitosa col sudore della fronte. Il suo sacrificio e la sua fatica erano stati una palestra di vita per Giuseppe, che da suo padre aveva imparato a non arrendersi, a non scappare di fronte alle responsabilità, a non cedere alle lusinghe delle scorciatoie, ad avere la schiena diritta di fronte alle ingiustizie. La scelta di trasferirsi a Torino, ancora sedicenne, era stata una conseguenza di questa educazione che insegnava ad accettare il sacrificio come strumento di dignità. In Piemonte, Giuseppe aveva trovato lavoro come muratore, ma era difficile stare lontano dalla Sicilia e lui aveva voglia di tornarci. Lo fece poco più tardi, perché era convinto che lì, nella sua terra, avrebbe trovato la sua strada.
Ci sono storie il cui valore più grande è esattamente questo: averci consegnato la testimonianza concreta di uomini che hanno interpretato con radicalità il valore dell’etica come professione. Costi quel che costi, in termini di coraggio, lealtà, onestà, fedeltà. L’importante era viverli quei valori, testimoniali, incarnarli. Costi quel che costi. Perché non sono stati i valori in cui credeva a causarne la morte. Semmai, a quella morte hanno dato un senso.
Gigi Marinoni
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