Usaid? Un carrozzone burocratico che elargisce soldi senza controlli


Che cosa pensa dell’Usai Anna Prouse, esperta italiana di ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali. L’articolo dell’Agi

 

Produrre uva senza semi nel deserto iracheno? Non è fantascienza, ma uno dei tanti progetti surreali proposti dall’Us Agency for International development (Usaid) senza tenere minimamente conto della sua fattibilità in loco, del conseguente impatto e soprattutto degli interessi della popolazione. A raccontare all’AGI della sua diretta esperienza è Anna Prouse, esperta italiana di ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali, durante i suoi anni a capo di una provincia del Sud dell’Iraq per conto del generale americano David Petraeus.

“Usaid è un carrozzone burocratico, lentissimo nell’approvazione e l’attuazione dei progetti, purtroppo spesso scollegati dalla realtà. Elargisce ingenti finanziamenti anche a scatola chiusa senza alcuna verifica diretta finale, quindi ben venga una sua profonda riorganizzazione in termini di competenze, metodologia, efficacia e coerenza politica”, dice apertamente Prouse, che ha alle spalle una lunga esperienza di gestione della ricostruzione sia per organizzazioni del calibro del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) che per conto di Washington – sotto la presidenza di Barack Obama – dall’Iraq alla Libia, passando per Siria, Yemen, Uganda, Somalia, Kenya e Niger.

PIÙ VOGLIA DI LUCRARE CHE DI IMPARARE

“Quante volte mi sono trovata a dover assistere alla partecipazione a corsi di formazione di dipendenti governativi poco motivati ad acquisire competenze da figure esperte nei campi dell’archeologia e dell’agricoltura, che sarebbero state molto utili per far progredire il loro Paese, ma erano soltanto interessati a percepire l’indennità giornaliera di circa 30 dollari che gli Usa elargivano con grande facilità”, testimonia ancora Prouse, che nel suo libro “Della mia pace, della mia guerra” racconta anche dei suoi anni iracheni, tra il 2003 e il 2011.

“In realtà serve una riflessione globale, che a partire dall’esperienza di Usaid vale per tutto il sistema degli aiuti umanitari, Ong incluse. Dove finiscono effettivamente finanziamenti e aiuti materiali? Cambiano davvero l’esistenza di chi ne ha più bisogno?”, si interroga Prouse. A titolo di esempio, cita la sua esperienza diretta in Siria – tra il 2013 e il 2015 – sotto il regime di Assad, “quando il presidente era il cattivo di turno e gli aiuti finivano di fatto nelle mani sbagliate, magari di terroristi, tagliando fuori i più bisognosi”.

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Al momento, la Casa Bianca ha optato per il congelamento di tutti i finanziamenti per i progetti di aiuti esteri per una durata di 90 giorni al fine di valutarli e di rivedere la strategia Usa complessiva in materia. “Chiaramente Trump passa per il cattivo della situazione, già responsabile dello stop nell’erogazione di farmaci antiretrovirali oltre agli aiuti alimentari che stanno causando danni e morti. Chiaramente la sua decisione ha un impatto di comunicazione e d’immagine molto forte, ma bisogna andare oltre la sua retorica ben nota per riuscire a capire i vari risvolti, sia negativi che positivi”, valuta Prouse.

LE “SPARATE” DI TRUMP

Anche se il titolare della Casa Bianca è abituato a ‘spararla grossa’ per arrivare laddove vuole lui, come in qualunque trattativa tra venditore e compratore, sicuramente “metterà acqua nel suo vino” e quindi potrebbe riaggiustare il tiro delle sue azioni in materia di aiuti allo sviluppo. “Questa sospensione può davvero essere un’opportunità per cambiare metodologia, come fortemente auspicabile, per una maggiore coerenza politica e di credibilità, ma soprattutto per dare a quei popoli le gambe per camminare finalmente da soli invece di continuare a essere dipendenti all’infinito dagli aiuti esterni”, prospetta l’esperta italiana.

Secondo lei, ci sono alcune linee guida semplici da osservare per una maggiore efficacia dell’intero sistema, per una cooperazione più lungimirante. “I progetti vanno studiati a tavolino con i locali per aiutarli ad aiutarsi. Bisogna uscire dall’ideologia americana e mettersi finalmente nei panni dei Paesi in cui si interviene. Coinvolgerli anche nel finanziamento: basta far affidamento solo sui soldi degli altri, serve che i Paesi beneficiari siano co-finanziatori. Solo così impareranno ad avere una gestione oculata delle proprie risorse, acquisendo così competenze in materia di budget execution”, spiega Prouse.

Nuove opportunità già colte e rilanciate, ad esempio, dall’ex presidente del Kenya Uhuru Kenyatta in un suo recente discorso, mentre l’Africa è protagonista di un ‘risveglio’ nazionalista e della propria identità panafricana come motivo di orgoglio e rinnovata emancipazione dalle storiche potenze coloniali, Francia in primis. Dello stesso parere il presidente dello Zambia, Hakainde Hichilema, secondo cui se il blocco dei finanziamenti all’Africa da parte di Usaid rappresenta un campanello d’allarme per il continente, nel contempo evidenzia l’urgenza di rafforzare la capacità africana di mobilitare e gestire le risorse localmente ed efficacemente.

IMPARARE A GESTIRE LE RISORSE

Hichilema ha avvertito che l’impatto del ritiro di Usaid è profondo e non può essere sottovalutato e ha esortato i governi africani a ridurre la dipendenza dagli aiuti esterni, migliorare l’efficienza della spesa pubblica e reindirizzare le risorse verso settori critici come sanità, agricoltura e istruzione. “Sebbene la sospensione dei finanziamenti Usaid e dei programmi di supporto correlati fosse, forse, inevitabile a un certo punto, la nostra vera forza risiede nella gestione prudente delle nostre risorse. Questo momento ci ricorda l’importanza di costruire economie sostenibili, investendo nella crescita locale”, ha dichiarato Hichilema.

A fronte di questa svolta, diversi leader africani, ma non solo, stanno già intensificando gli sforzi per diversificare le fonti di finanziamento, rafforzare la cooperazione intra-africana e attirare nuovi investimenti esteri, in un tentativo di colmare il vuoto lasciato dalla riduzione degli aiuti statunitensi.

(Articolo pubblicato su Agi)

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