Scandalo dossieraggi, dove porta l’inchiesta su Carmine Gallo: dall’omicidio Alfano a Squadra Fiore


Le fonti, che da qualche settimana guidano gli articoli dei giornali di carta, sembrano indirizzare i titoli su personaggi secondari. Come se l’ordine, partito chissà dove, volesse tenere lontana l’attenzione dei lettori dal protagonista finora centrale. E ridimensionare così lo scandalo che avrebbe agitato qualunque governo: non soltanto Giorgia Meloni e il suo sottosegretario ai servizi segreti, Alfredo Mantovano. Il vero protagonista si chiama infatti Carmine Gallo, ha 66 anni ed è un funzionario di polizia in pensione. Proprio seguendo le tracce lasciate da Gallo, che finora non appaiono nell’inchiesta della Procura milanese sulla sua agenzia di spionaggio Equalize, si arriva molto lontano. Ecco dove: basta leggere i verbali, come ha fatto Today.it, dimenticati nei cassetti di diverse Procure.

10 – L’ufficio segreto del Sisde in via del Tritone a Roma

Lunedì 3 ottobre 2022 l’indagine è all’inizio. Carmine Gallo parla con Samuele Calamucci, 45 anni, il collaboratore arrestato con lui a fine ottobre 2024. E gli rivela di aver lavorato per un ufficio coperto. I carabinieri registrano: “Questi sono due dei servizi segreti… stavano con me a via del Tritone”, dice il poliziotto in pensione. A Milano la via non esiste. A Roma l’indirizzo corrisponde invece a una sede operativa del Sisde, il servizio segreto interno che dal 2007 si chiama Aisi (nella foto sopra scattata dai carabinieri, Gallo tra Calamucci, di spalle, e l’altro socio dell’agenzia, Enrico Pazzali, 64 anni).

Quindi Gallo, che è l’amministratore delegato di Equalize, ammette di avere fatto parte della rete clandestina dei servizi, che rispondeva all’ufficio di via del Tritone. Nella loro informativa i carabinieri scrivono che non hanno trovato riscontri. E probabilmente di riscontri amministrativi non ce ne sono. Ma la cellula esiste e arruola i suoi membri tra il personale delle forze dell’ordine, senza formalità. Esattamente come farebbe oggi Squadra Fiore (ne abbiamo parlato qui).

9 – Così gli 007 fanno rivendicare l’omicidio Mormile

Lo conferma l’omicidio di Umberto Mormile, 37 anni, educatore del carcere di Opera, assassinato alle porte di Milano l’11 aprile 1990. Quella mattina Antonino Cuzzola guida la moto da cui il killer Antonio Schettini spara a Mormile. Per quasi 30 anni sembra una vendetta della ‘ndrangheta di Domenico Papalia e Franco Coco Trovato. Ma da qualche anno si è scoperto che la ‘ndrangheta ha eseguito gli ordini ricevuti da un livello superiore. E Cuzzola chiama in causa proprio Carmine Gallo, che non è indagato per questo (nella foto sopra, il verbale depositato dell’interrogatorio di Cuzzola).

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Ecco cosa dice l’11 marzo 2019, interrogato dalla pm Paola Biondolillo, della Direzione distrettuale antimafia di Milano: “Per le indagini [Antonio Papalia] mi fa: vai tranquillo che noi quell’omicidio lì non lo paghiamo, basta che non se ne parla più. A noi non ci possono arrivare mai, con quella telefonata lì di questa Falange armata… che poi ci sono stati altri depistaggi dopo”.

8 – “I servizi si dividevano i soldi dei sequestri di persona”

“Domenico Barbaro – aggiunge Antonino Cuzzola, riferendosi a un altro boss alleato dei Papalia – che mi diceva? Che andavano i servizi e portavano i soldi dei sequestri a casa sua… Andavano a casa, pattuivano i soldi” (nella foto sotto, il verbale). Poi la frase che raggela il pubblico ministero: “Anche in questo Tribunale, un maresciallo che lavora qui, che adesso è diventato ispettore o commissario… anche lui faceva i colloqui, veniva nelle gabbie e faceva i colloqui con i Papalia… Anche Antonio Papalia a Reggio Calabria faceva i colloqui con i servizi… Diciamo questi qua, come Antonio, ci sono state tutte quelle scarcerazioni Nord-Sud in appello, una massa di scarcerazioni che hanno fatto accordi con i Papalia e Ciccio Barbaro per liberare la Sgarella. Perché tutti questi accordi li ha fatti pure quello che lavora qua in Tribunale, Gallo”.

Il verbale sui soldi dei sequestri di persona (foto Today.it)

Alessandra Sgarella viene sequestrata dalla ‘ndrangheta a Milano l’11 dicembre 1997, imprigionata in una buca nel terreno e rilasciata il 4 settembre dell’anno dopo con il pagamento di un riscatto di 5 miliardi di lire, in euro oltre due milioni e mezzo. La pm Biondolillo chiede nuovamente chi avrebbe fatto questi accordi. “Questi accordi qua, quello che veniva nella gabbia a parlare e stava ore e ore con Antonio Papalia è Gallo – ripete Antonino Cuzzola – e l’avete qui, in questo Tribunale. È diventato commissario”.

7 – La rivelazione: chi parlava con i Papalia è Carmine Gallo

Carmine Gallo non è mai stato sentito dalla Procura di Milano per l’omicidio Mormile. Le parole di Cuzzola evidentemente non sono state ritenute meritevoli di approfondimento. Succede anche quando, in un altro processo a Reggio Calabria, il collaboratore Vittorio Foschini confessa per la prima volta di aver partecipato pure lui all’organizzazione dell’omicidio. Sempre Foschini rivela che proprio Antonio Papalia gli aveva riferito che l’ordine di uccidere era arrivato dai servizi segreti, insieme alla richiesta di rivendicare l’agguato con la sigla Falange armata. In modo che i sospetti non ricadessero poi sulla ‘ndrangheta.

Carmine Gallo mentre trasferisce l'archivio dell'agenzia Equalize (foto Carabinieri)

Acquisiti gli atti, la famiglia Mormile denuncia Foschini e il suo complice chiamato in causa, Salvatore Pace, perché siano processati. Ma la Direzione distrettuale antimafia di Milano, competente per l’omicidio, chiede l’archiviazione, non trovando elementi per sostenere l’accusa contro i due boss oggi pentiti: nonostante siano rei confessi.

6 – La sentenza definitiva: perché uccidono Umberto Mormile

Soltanto l’opposizione della famiglia del dipendente del ministero della Giustizia davanti al giudice otterrà il processo. E alla fine la sentenza di condanna dei due imputati a 7 anni di reclusione, pronunciata il 15 marzo 2024. Così, per la prima volta, il livello superiore diventa verità giudiziaria. 

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Foschini non fa ricorso in appello e la sua condanna è ora definitiva: secondo la confessione, Umberto Mormile aveva scoperto i colloqui tra la famiglia Papalia e personale del Sisde, in un periodo in cui dovevano rimanere segreto di Stato. All’educatore era scappata una battuta con un detenuto e per questo è stato ucciso.

5 – Le telefonate di Papalia a Simonetta Matone (che conferma)

Il capo supremo della ‘ndrangheta, Domenico Papalia, in quegli anni ha anche un filo diretto con il magistrato Simonetta Matone, allora segretaria del ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, e oggi parlamentare della Lega. “Quando lei fu segretaria del ministro e io andavo in permesso, mi capitava di telefonarle”, conferma il boss in un verbale depositato agli atti del processo Mormile. “Il ricordo che mi rimane di quel periodo è di un impegno totalizzante – risponde Simonetta Matone a Today.it – nel seguire le vicende di tutti, dico tutti, i detenuti che erano rinchiusi nelle carceri che mi erano state assegnate”.

Il verbale in cui Domenico Papalia rivela il rapporto di allora con Simonetta Matone (foto Today.it)

L’altro boss condannato per l’omicidio, Salvatore Pace, non accetta la sentenza e fa ricorso in appello. Il legame di Pace con Carmine Gallo è talmente stretto che il legale che lo assiste nel processo Mormile indica al Tribunale come suo domicilio l’ufficio dell’agenzia di spionaggio Equalize. Ma con Gallo, secondo la Procura, l’avvocato Salvatore Verdoliva condivide anche parte delle attività illecite (ne abbiamo parlato qui). Tanto che ora è tra gli indagati dell’inchiesta milanese sui dossieraggi. A giorni si apre il processo d’appello per l’omicidio del dipendente del ministero della Giustizia. E Verdoliva sarà nuovamente in aula nella triplice veste di difensore di Salvatore Pace, indagato e presunto complice di Carmine Gallo.

4 – Torniamo nella sede coperta del Sisde in via del Tritone

Non ci sono prove che l’ex poliziotto sia personalmente coinvolto nell’omicidio. Ma, vista la sua ammissione nelle intercettazioni, potrebbe essere un testimone fondamentale sul livello occulto che ha ordinato l’agguato. Anche perché la sigla Falange armata, usata per la prima volta proprio per rivendicare la condanna a morte di Mormile, accompagnerà per anni stragi, delitti eccellenti, ricatti, rivendicazioni. Di chi è stata l’idea? Per capirne di più, bisogna entrare nell’ufficio del Sisde di allora, in via del Tritone a Roma. Ed è quello che facciamo ora.

La sera di venerdì 8 gennaio 1993, una settimana prima dell’arresto di Totò Riina, a Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, viene ucciso a 47 anni il giornalista Giuseppe Alfano. La famiglia è convinta che il corrispondente de “La Sicilia” sia stato assassinato perché aveva capito o scoperto che il boss catanese Benedetto Santapaola veniva protetto nella zona di Barcellona. E probabilmente ha cercato conferme da una fonte collusa. L’unica certezza è che subito dopo l’omicidio, la sua casa non viene perquisita dalla polizia giudiziaria, ma da agenti del Sisde. Funzionari che non hanno nessun obbligo di riferire alla magistratura ciò che hanno trovato.

3 – Chi era il boss “protetto” a Barcellona Pozzo di Gotto

L’imminente arresto di Riina dimostra che lo Stato sta per colpire duramente la mafia palermitana, responsabile degli attentati che hanno da poco ucciso i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli agenti della loro scorta. Ma le famiglie catanesi in quelle settimane godono ancora degli stessi riguardi garantiti a Milano al clan Papalia. Lo si intuisce dalla testimonianza di Giorgio Portali, ispettore di polizia allora in servizio al commissariato di Milazzo, preso a verbale il 4 marzo 2015.

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Le dichiarazioni dell'ispettore Giorgio Portali su via del Tritone (foto Today.it)

“Nella zona di Barcellona Pozzo di Gotto – racconta l’ispettore Portali, in un supplemento di indagine sull’omicidio di Giuseppe Alfano – avevamo notizia che Santapaola veniva nascosto all’interno del complesso turistico di Portorosa, dove teneva anche delle riunioni con i boss della zona… In quel periodo, accompagnando il dottor Manganelli [direttore del Servizio centrale operativo della polizia], andai in via del Tritone, a Roma, dove aveva sede il Servizio gruppo ricerche del Sisde, per partecipare a un incontro con il dirigente del citato gruppo, dottor De Vuono, il quale alla richiesta di inviare personale presso il complesso turistico di Portorosa, rispose che aveva in corso delle indagini in Germania che avrebbero consentito a breve di catturare Nitto Santapaola”. De Vuono potrebbe essere un nome di copertura o un errore di Portali, perché non verrà mai rintracciato.

2 – La fuga da film: il Sisde arriva, ma Santapaola scappa

“Gli operatori del Sisde giunsero a Portorosa nel periodo invernale – aggiunge l’ispettore di polizia – credo dunque tra la fine del 1992 e i primi mesi del 1993 e rimasero per circa 15 giorni”. Sono le stesse settimane in cui viene ucciso Beppe Alfano. Ma, secondo la testimonianza di Giorgio Portali, non trovano nulla di interessante. Eppure Nitto Santapaola è proprio lì.

“Ricordo che nell’aprile del 1993, con il coordinamento del Servizio centrale operativo, venne organizzato un vasto servizio nella zona di Terme Vigliatore, con numerosissime perquisizioni, attraverso l’impiego di 200 uomini – racconta Portali -. Il giorno successivo a tale operazione, una fonte ci informò che nella stessa nottata Santapaola era stato portato a bordo di un’auto da alcune persone che, scortandolo a Portorosa, con armi in pugno, esattamente dalla discesa del ristorante La Cantina, lo fecero salire a bordo di un motoscafo che poi si seppe, sarebbe stato condotto presso l’Hotel Arcipelago sull’isola di Vulcano”. Salvato ancora una volta. Santapaola verrà arrestato a maggio. Ma la misteriosa cellula di uomini armati, intervenuti quella notte, non sarà mai più identificata.

1 – La trattativa sull’ultimo ostaggio all’origine dei ricatti

Così come restano poco chiari i contorni di una delle riunioni organizzate tra Stato e ‘ndrangheta a Milano per ottenere il rilascio di Alessandra Sgarella, nel momento in cui è ancora ostaggio dei rapitori. A Today.it lo racconta una fonte investigativa della polizia, che chiede l’anonimato. In quei giorni bisognava stabilire l’entità del riscatto, le liquidità dell’impresa di famiglia e le garanzie da concedere agli intermediari mafiosi. I nomi dei presenti non verranno mai rivelati e per questo non sono mai stati scritti in un verbale. L’idea sarebbe venuta a uno degli intermediari appartenente a una cellula coperta dei servizi. Invece di ritrovarsi in un ufficio di polizia, o in un appartamento del Sisde, propone la soluzione più estemporanea: la casa di un collaboratore di giustizia.

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Ed è quello che fanno. All’ora prestabilita, il pentito della ‘ndrangheta viene invitato a uscire per tutto il tempo della riunione. Nessuno si accorge che in un angolo l’ex criminale ha nascosto una telecamera. Così registra tutto. Contrattazioni, favori, promesse, concessioni inconfessabili. Polizia e carabinieri cercheranno per anni quel nastro. Senza mai trovarlo. Concludendo che forse si è trattato di uno scherzo del padrone di casa. Soltanto uno scherzo. Ma già da allora, nella Milano dei ricatti, non si butta via niente.

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