La stagione delle catastrofi e la necessità di un pensiero nuovo. Intervista a Roberto Esposito


B.: La storia contemporanea sembra entrata, da qualche anno, in una fase caotica in cui la ridefinizione dei rapporti di forza internazionali (con il declino degli USA e l’ascesa inarrestabile della Cina) incrocia l’esplosione delle innovazioni tecnologiche digitali e l’affermarsi della cosiddetta “intelligenza” artificiale. Tutto questo sta avvenendo nel pieno di una torsione autoritaria che rivela anche all’Occidente la natura prepotente e predatoria dell’ideologia neoliberale. Come leggi questa dinamica e che spiragli intravedi per una critica del potere contemporaneo che non sfoci semplicemente nell’auspicio di nuovi padroni del mondo che sostituiscano i precedenti?

E.: Non c’è dubbio che siamo entrati in una fase caotica in cui è difficile anche definire dei presupposti comuni (per esempio, siamo sicuri si possa parlare di ‘declino degli USA’?). Si può dire che siamo passati dal tempo delle ‘crisi’, che consentivano sempre di ripartire, modificando il meccanismo di sviluppo senza doverlo sostituire con un altro, al tempo delle ‘catastrofi’, nel senso dei radicali mutamenti di stato. Ormai, si potrebbe dire, in termini teologico-politici, che sono venuti meno tutti i katechon, tutti i ‘farmaci’, usati nel passato per neutralizzare i conflitti. Così ci troviamo di fronte a conflitti senza soluzione, come avviene per le guerre in corso. L’unica ‘soluzione’ che s’intravede è appunto quella della semplificazione autoritaria, in cui gli attori più forti decidono come spartirsi il mondo. Con l’attuale alleanza della destra mondiale con le più avanzate tecnologie, non credo si possa più parlare di liberalismo e neanche di neoliberalismo. Ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo – un misto di economia finanziaria e potenza tecnologica – per il quale non abbiamo più neanche le parole. Francamente al momento non vedo grandi spiragli. Inutile ripetere i vecchi slogan. Dobbiamo fermarci un momento a ripensare il nostro vocabolario politico. Nessuna delle sue parole ‘tradizionali’ funziona per descrivere la situazione attuale.

B.: Grande assente nel dibattito politico attuale è il tema del conflitto di classe. Come ripensarlo oggi? E in Italia: è realistico immaginare la nascita di un terzo polo che rompa la formula del “monopartitismo competitivo” incarnato dal (finto) bipolarismo centro-destra/centro-sinistra?

E.: È difficile parlare di conflitto di classe senza capire cosa oggi possa definirsi ‘classe’. Le classi, nel senso classico dell’espressione, sono scomparse alla fine del modello fordista. Adesso viviamo in un interregno sociale in cui è difficile orientarsi. È proprio questa condizione contraddittoria a rendere difficile una risposta politica alla nostra condizione. Da un lato le ineguaglianze economiche e lo sfruttamento del lavoro vivo sono cresciuti a dismisura. Dall’altro non configurano un soggetto politico che possa sostituire le vecchie classi e aprire un conflitto. In questa situazione non è chiaro neanche chi, o cosa, sia l’avversario. Ciò nasce dalla frantumazione del mondo del lavoro. E dalla difficoltà di ricondurre questa eterogeneità a una forma di soggettività politica. Non credo molto alla nascita di un terzo polo in Italia, almeno nelle forme che ha assunto finora. Anche la componente cattolica fa fatica a distinguersi e a darsi un progetto politico identificabile. Colpisce il blocco del sistema politico italiano, incapace di recepire le sollecitazioni che pure vengono dall’esterno. Per dirne una, come è possibile che in una fase in cui le uniche residue speranze sono riposte in una ripresa dell’Europa politica, un partito che si chiama ‘più Europa’ non raggiunga il due per cento nei sondaggi?

B.: Nei tuoi lavori più recenti presenti il pensiero istituente come alternativa credibile ai pensieri critici (destituente e costituente) sviluppati da figure come Giorgio Agamben, Gilles Deleuze, Michel Foucault e altri protagonisti dell’Italian e della French Theory. Puoi descrivere le coordinate di massima di una prospettiva filosofica e politica che ripensi le istituzioni e finalmente esca dal labirinto delle decostruzioni fini a se stesse?

E.: Effettivamente la decostruzione, in tutte le sue modalità destituenti, non basta più. Naturalmente sappiamo che ha avuto un ruolo importante nel rinnovamento del pensiero contemporaneo. Autori come Derrida in Francia e Agamben in Italia hanno svolto una funzione significativa nel superare un certo orizzonte metafisico in una chiave che potremmo dire ‘impolitica’. Io stesso, soprattutto in passato, ho lavorato con la categoria decostruttiva di ‘impolitico’. Ma, oltre un certo limite, il discorso decostruttivo sembra ruotare su se stesso, se non si riapre un pensiero in qualche modo ‘istituente’. In particolare la sinistra filosofica – da Sartre a Marcuse, a Foucault – ha sempre avuto un problema nei confronti delle istituzioni. In molti casi a ragione, almeno quando tali istituzioni mostravano il loro lato regressivo e anche repressivo. Ma lo scontro frontale tra movimenti e istituzioni, già a partire dagli anni Settanta, non ha portato nulla di buono, né agli uni né alle altre. I movimenti sono diventati sempre meno influenti politicamente e le istituzioni sempre più autocentrate. Credo sia arrivato il momento di riarticolare in modo diverso la dialettica tra istituzioni e movimenti, portando il movimento dentro le istituzioni. È quanto ho cercato di fare con i miei ultimi lavori: ripensare la prassi istituente non a partire dal sostantivo ‘istituzione’, ma dal verbo ‘istituire’, in chiave non più statica, ma dinamica. Da questo punto di vista si tratta di immettere la vita all’interno delle istituzioni, dando ragione dell’antico lemma latino ‘vitam instituire’.

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B.: Un altro argomento centrale nel tuo percorso è quello del nostro rapporto con il negativo. Come abitare la realtà evitando che il negativo si tramuti in distruzione? Ma anche, come incanalarne la forza senza cadere nell’illusione di eliminarlo dalle nostre vite?

E.: Tocchi una questione decisiva sotto il profilo filosofico, ma che trova un suo riflesso anche in campo politico. Negli anni passati, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, si è diffusa l’idea, da parte di chi arrivava a parlare di ‘fine della storia’, che il negativo fosse finito e che si aprisse il tempo di una diffusione universale di democrazia e benessere. Già all’inizio del nuovo secolo, a partire dall’attentato a Manhattan, questa illusione si è rotta. Non solo il ‘negativo’ non era affatto scomparso, ma sembra ritornato con i caratteri distruttivi che hanno assunto una forma sempre più preoccupante nei due decenni successivi, fino ad oggi. Del resto già Hegel aveva spiegato che la rimozione del negativo porta al suo ritorno fantasmatico. Non diversamente, in linguaggio psicoanalitico, si è espresso Freud. Solo affrontando il negativo a viso aperto è possibile riconoscerne gli aspetti potenzialmente innovativi. Per esempio, per tornare a quanto si diceva prima, solo riconoscendo la crescita smisurata delle diseguaglianze, è possibile porsi il problema di come porvi rimedio. Chiudere gli occhi davanti al negativo, vuol dire consegnarsi senza difesa ai poteri esistenti. Ridursi a mendicare da essi qualche vantaggio personale, a danno degli altri. È quanto oggi rischiamo di fare davanti ai nuovi padroni del mondo.

B.: Chiudo chiedendoti quale futuro immagini per l’Europa. Il progetto europeo è al capolinea? Può essere rifondato o conviene – come suggerisce ad esempio Pierluigi Fagan – immaginare nuove federazioni tra paesi più conformi per storia, lingua e posizionamento geografico (un’Europa mediterranea, per intenderci, autonoma e capace di rinnovare lo spirito di dialogo con l’Oriente che l’UE ha sacrificato alimentando la russofobia e allentando le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese)?

E.: Come molti dicono giustamente, l’Europa si trova davanti una sfida di carattere esistenziale, nel senso che o ha un soprassalto, quasi fuori tempo massimo, oppure uscirà di scena nei nuovi equilibri del mondo. Quale questo soprassalto possa essere, è difficile dire. Certo, l’orizzonte federale è l’unico cui si possa guardare come esito ultimo. Ma è vero che negli anni, anzi nei decenni passati, l’immissione di nuovi Stati nell’Unione non ha rafforzato, ma indebolito, la prospettiva federale. Anche aldilà della farraginosità dei meccanismi tecnici della presa delle decisioni – l’unanimità in ogni processo decisionale, quando basterebbe il criterio democratico di maggioranza –, il problema è quello della forte eterogeneità dei paesi europei. È difficile immaginare quali interessi possano unire la Norvegia e la Grecia o il Portogallo e la Polonia. Da ciò consegue che cominciare a ragionare per raggruppamenti parziali tra paesi più omogenei da punto di vista storico, geografico, economico possa essere realistico. Già immediatamente dopo la seconda guerra mondiale Alexandre Kojève propose la formazione di un blocco che chiamava ‘impero latino’, inclusivo di Francia, Italia e Spagna, legato dal comune interesse mediterraneo. Era una proposta al momento impraticabile, che però aveva un nucleo razionale. Certo, la Brexit è stata, per lo stesso Regno Unito, un errore catastrofico. Senza Germania non si va da nessuna parte. Ciò vale, ovviamente, anche per la Francia, l’unica potenza europea militare. L’Italia, potrebbe, e dovrebbe, giocare un ruolo importante, in questo quadro. A meno di non voler diventare un vassallo degli USA. È giusto condannare la russofobia, come tu dici, senza però illudersi sulle reali intenzioni di Putin. Quanto alla Cina, come diceva Churchill della Russia, è un enigma avvolto in un mistero.



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