Una storia intellettuale tra ricchi e poveri


Se è vero che, nel corso dei decenni successivi alla conclusione del Secondo conflitto mondiale, l’affermazione dei sistemi di welfare e i tassi di crescita insolitamente alti hanno condotto a un miglioramento piuttosto rilevante delle condizioni di vita nell’Occidente industrializzato, appare tuttavia agevole constatare come, negli ultimi venti o trent’anni, vi sia stato un notevole aumento delle disuguaglianze.

LE ANALISI sulla distribuzione del reddito, il cui numero era un tempo assai diminuito perché l’argomento veniva forse considerato di scarso rilievo, sono di conseguenza tornate prepotentemente alla ribalta: gli studiosi sembrano cioè essere maggiormente intenzionati a indagare le cause del fenomeno e a proporre politiche in grado di fronteggiarlo.

In questo saggio, dal titolo Visioni della disuguaglianza (Laterza, pp, 363, euro 24), l’economista Branko Milanovic prende in esame alcune questioni sulle quali la dismal science si è interrogata fin dalle sue origini: è naturale che alcuni uomini siano ricchi e altri poveri? Esiste un criterio razionale che possa giustificare una simile divisione? Quali sono, nell’ambito di una società, le conseguenze di una ripartizione ineguale delle risorse? Qual è il livello massimo di sperequazione che possiamo permetterci?

Nel suo contributo, che si caratterizza per l’originalità, la chiarezza e il rigore dell’analisi, Milanovic immagina di rivolgere queste domande ad alcuni dei teorici che più hanno influito nel determinare l’evoluzione del pensiero economico e le scelte fatte dai governi. Si tratta di François Quesnay, Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Vilfredo Pareto e Simon Kuznets. Attraverso una «rigorosa adesione alle fonti», egli si è sforzato di prendere alla lettera tutto ciò che i vari autori hanno scritto: ha inteso tracciare, in altri termini, una storia intellettuale relativa al tema della distribuzione del reddito illustrando l’apparato teorico che, al riguardo, è stato messo a punto da ciascuno di loro.

LO STUDIOSO NE ANALIZZA le opere alla luce sia del periodo storico che del contesto sociale nei quali sono state elaborate: ciò gli consente di mettere in rilievo come quelle teorie siano mutate in relazione alle epoche e alle comunità dal momento che – egli sostiene – non sembra possibile parlare di «disuguaglianza» alla stregua di un concetto astratto e, in quanto tale, avulso da un qualunque ambito. Ogni indagine va invece inserita in un determinato tempo e luogo, giacché all’uno e all’altro appare indissolubilmente legata. Occorre dunque ribadire come la disuguaglianza sia un fenomeno storico: i fattori che la determinano variano a seconda della società, dell’epoca e delle istituzioni esistenti, e il modo in cui viene percepita differisce in base all’ideologia di ciascuno.

Ma quali sono quei fattori? Dai divari di reddito all’inflazione, dai trasferimenti sociali alle politiche fiscali, dal livello dei consumi alle discriminazioni per razza e genere fino al ruolo svolto dai sindacati e dalla scolarizzazione, si tratta di variabili che vanno studiate in maniera accurata e approfondita, poiché incidono in misura rilevante sul comportamento del singolo individuo e di intere classi.

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È PERTANTO NECESSARIO che l’economista disponga di un’ampia visuale, di un orizzonte vasto che lo induca a inserire nell’ambito della propria analisi i dati delle discipline sociali in maniera da riuscire a comprendere i modelli di sviluppo demografico, la natura e le componenti delle trasformazioni tecnologiche, i caratteri e le tendenze delle istituzioni politiche.

Come si diceva all’inizio, nel corso del dopoguerra gli studi sulla distribuzione del reddito hanno fatto registrare una lunga eclissi. Nei primi decenni del XXI secolo – a causa soprattutto della crisi del 2007-2008 – vi è invece stata una vera e propria esplosione di ricerche sull’argomento che ha dato luogo a nuovi filoni di indagine: dal lavoro di Thomas Piketty al sempre maggiore utilizzo delle fonti storiche e archivistiche fino alle analisi sulla disuguaglianza globale, ci troviamo dunque di fronte a numerosi contributi di pregevole livello che, secondo Milanovic, «avranno un impatto duraturo sull’economia e le scienze sociali almeno per un altro mezzo secolo».



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