Il 2025 è un anno incredibilmente delicato per la manifattura italiana, che si trova al centro di una serie di fenomeni “trasformativi” di enorme portata. Si tratta di cambiamenti che – per una volta – non è esagerato definire epocali e il cui impatto non siamo ancora in grado di leggere nella sua interezza proprio come chi è al centro di un ciclone non riesce a percepirne le dimensioni.
Abbiamo parlato di ciclone non a caso, perché di fenomeni che si sono riversati sulla manifattura italiana ce ne sono stati davvero tanti in questi anni.
L’impatto del grande ciclone sulla manifattura italiana
Le imprese manifatturiere italiane, che erano già dai primi anni Duemila alle prese con la difficile gestione del cambio generazionale nelle media aziende a gestione familiare che erano spesso anche a capo di importanti filiere produttive, si sono trovate davanti a una serie di sfide di grande rilevanza.
Sul finire degli anni Duemila la grande crisi finanziaria (quella Lehman Brothers) ha lasciato un segno indelebile nel tessuto industriale italiano, innescando una serie di conseguenze che si sono protratte ben oltre la sua fase acuta. L’improvvisa contrazione del credito e la conseguente recessione economica hanno costretto molte imprese a drastiche misure di riduzione dei costi, tra cui il taglio degli organici. Questa ristrutturazione, spesso dolorosa, ha comportato la perdita di competenze preziose, soprattutto in quelle figure professionali più legate a modelli di produzione tradizionali.
Poi è arrivata la grande transizione digitale. È impossibile riassumere in poche parole quello che è successo negli ultimi vent’anni – e che di fatto ha consentito l’affermarsi del paradigma della quarta rivoluzione industriale – ma vale la pena citare almeno tre fattori. Il primo, a partire già dal 2006-2007, è l’accelerazione senza precedenti dell’evoluzione dell’elettronica con la conseguente riduzione dei costi: una serie di dispositivi tipicamente meccanici, elettromeccanici, idraulici ha iniziato a essere arricchita di schede elettroniche preposte prima al controllo e successivamente anche all’interconnessione dei dispositivi. Contemporaneamente (e in parte anche di conseguenza) abbiamo assistito alla crescita esponenziale dei software, che hanno rapidamente assunto il ruolo di direttori del concerto dell’innovazione. Negli ultimi 8-10 anni, infine, sono emersi prima il Machine Learning e poi l’AI che hanno letteralmente rivoluzionato interi ambiti come ad esempio il controllo di qualità e la manutenzione. E da questa disamina stiamo volutamente lasciando fuori le più recenti evoluzioni dell’AI generativa, di cui solo nel prossimo futuro riusciremo a cogliere il potenziale disruptive.
Le imprese hanno affrontato le sfide della transizione digitale con alcune difficoltà, ma anche con entusiasmo. Il sistema di politiche incentivanti, di cui il piano Industria 4.0 è un bellissimo esempio, ha giocato un ruolo fondamentale per diffondere prima la conoscenza e poi l’adozione delle nuove tecnologie nelle imprese. Un percorso tutt’altro che compiuto, ma quantomeno avviato.
Un altro ciclone è stata la pandemia, che nel biennio 2020-2021 ha rappresentato un veo e proprio spartiacque per il tessuto imprenditoriale italiano, un evento traumatico che ha agito da rivelatore delle fragilità esistenti, ma anche da potente stimolo per l’innovazione e la riorganizzazione. L’impatto non è stato omogeneo: alcune imprese, già in difficoltà o appartenenti a settori particolarmente colpiti, hanno subito danni irreversibili, mentre altre hanno saputo cogliere l’occasione per ripensare il proprio modello di business e rafforzare la propria posizione sul mercato.
In questi stessi anni in Europa anche la transizione green ha subito un’accelerazione (soprattutto normativa), a partire – vale la pena ricordarlo – dal lancio del Green Deal nel 2021 con l’annesso pacchetto “fit-for-55”. Le imprese che trovavano nell’Automotive il loro principale mercato di sbocco si sono viste contrarre le prospettive di business prima con il loro capoliliera nazionale (l’ex Fiat) e successivamente anche con i colossi tedeschi, caduti anch’essi in una profonda crisi legata all’elettrificazione forzata. L’avvento del PNRR, d’altro canto, per un equivoco concettuale mai chiarito non ha beneficiato le imprese energivore che rappresentano una parte importante del Made in Italy.
Sul piano internazionale l’inizio del XXI secolo ha visto un’ondata di delocalizzazione produttiva, con molte aziende italiane che hanno spostato le proprie attività in Cina, attratte dai bassi costi di produzione e dal potenziale di un mercato in rapida espansione. Questo “gioco” ha iniziato a mostrare le sue criticità con il mutare del panorama geopolitico. L’ascesa della Cina come potenza economica globale e le crescenti tensioni con gli Stati Uniti hanno innescato un ripensamento delle strategie di approvvigionamento, con un’enfasi sulla riduzione della dipendenza da un singolo paese.
La diminuzione delle opportunità commerciali in Cina ha spinto le imprese italiane a esplorare nuovi mercati, come la Turchia e i paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Tuttavia, questa diversificazione ha portato con sé nuove sfide e rischi. La Turchia, ad esempio, è diventata un concorrente sempre più agguerrito in alcuni settori chiave, mentre i paesi BRICS presentano un quadro eterogeneo, con opportunità e rischi specifici per ciascun mercato.
In questo contesto, la “R” di BRICS, che sta per Russia, merita una menzione particolare. Le sanzioni economiche imposte alla Russia dall’Unione Europea a partire dal 2014, a seguito dell’annessione della Crimea, e ulteriormente rafforzate a partire dal febbraio 2022 dopo l’invasione del Donbass, hanno avuto un impatto significativo sulle relazioni commerciali tra Italia e Russia e hanno limitato le opportunità di esportazione e di investimento per le imprese italiane, costringendole a cercare alternative e a ripensare le proprie strategie di internazionalizzazione.
Pochi mesi dopo – siamo nell’agosto del 2022 – gli Stati Uniti lanciavano l’IRA, l’Inflation Reduction Act: un potentissimo programma di sussidi originariamente mirati a ridurre l’inflazione e incentivare gli investimenti in energia pulita che di fatto si è trasformato in un insieme di incentivi per la rilocalizzazione di attività manifatturiere negli Stati Uniti. Negli ultimi due anni le imprese, viste le difficoltà con la Cina e con la Russia, hanno volto lo sguardo oltreoceano, intensificando l’export verso gli Stati Uniti la cui crescita era, come abbiamo visto, fortemente trainata dagli effetti dell’IRA.
Nel 2024 l’elezione di Trump ha impresso una forte accelerazione alle istanze protezionistiche del Nuovo Continente e sta cambiando nuovamente gli equilibri geopolitici.
L’opportunità (persa?) del PNRR
Il PNRR doveva rappresentare la grande opportunità di riscatto per il Paese e per le imprese, con un’iniezione di oltre 200 miliardi di risorse per riforme e investimenti.
Anche se è presto per tirare le somme, possiamo dire che sicuramente nel biennio post-pandemico l’Italia ha vissuto una forte ripresa proprio grazie al traino della manifattura e dal boom dell’edilizia, spinta a sua volta dall’irripetibile esperienza del Superbonus.
Soffermandoci sulle iniziative per supportare la manifattura, i crediti d’imposta previsti dal Piano Transizione 4.0 – arrivati a coprire fino al 50% degli investimenti in beni strumentali – hanno sortito importanti effetti, portando il valore della produzione di tutti i fornitori di macchinari e impianti a ripetere e spesso anche a superare i numeri record del 2019, con conseguenze importanti sull’indotto a monte e un beneficio fondamentale sullo svecchiamento del parco macchine installato nelle fabbriche italiane.
Il flop del piano Transizione 5.0
Analogo effetto si attendeva dal piano Transizione 5.0, finanziato con le risorse del programma RePower EU e confluito nel PNRR. Ma l’iniziativa, nonostante le potenzialità e l’interesse, non è decollata.
Uno dei principali ostacoli all’adozione del piano è stata la sua complessità concettuale prima ancora che normativa. Pensare al digitale come abilitatore di risparmio energetico è corretto sul piano concettuale, ma non altrettanto sul piano pratico, se si richiede la dimostrazione di un nesso diretto causa-effetto. In più le imprese, abituate a meccanismi di incentivazione più semplici e rodati, si sono trovate di fronte a una serie di requisiti che hanno generato incertezza e disorientamento.
Un altro fattore critico è stato l’orizzonte temporale troppo breve del piano, partito operativamente ad agosto 2024 con scadenza fissata a dicembre 2025: le imprese hanno avuto poco tempo per digerire i meccanismi dei nuovi incentivi. Il focus sull’efficientamento energetico e la logica ” a progetto” richiede poi tempi di gestazione ed esecuzione più lunghi, che spesso possono arrivare, in caso di impianti più complessi, a superare i 9-12 mesi.
Si aggiunga che, a differenza di quanto accadeva con Transizione 4.0, il medesimo investimento operato in due aziende diverse non necessariamente porta a maturare lo stesso incentivo.
I fatti dicono che al 25 febbraio 2025 risultano impegnati meno di 450 milioni dei 6,3 miliardi disponibili, poco più del 7%. Se anche le semplificazioni arrivate con la legge di bilancio avranno la possibilità di favorire un “mini boom” della misura (soprattutto con la semplificazione per la sostituzione dei beni obsoleti), difficilmente permetteranno di completare l’assorbimento delle risorse disponibili. Siamo infatti ormai alle soglie di marzo e, con il piano in scadenza a dicembre 2025, gli spazi per attrarre nuovi, grandi progetti da incentivare sono ormai ridottissimi.
Il mancato assorbimento dei fondi del piano Transizione 5.0 avrebbe due gravi conseguenze. La prima è che le nostre imprese perderebbero l’opportunità di accelerare la transizione energetica e la digitalizzazione, con un impatto negativo sulla competitività e sulla sostenibilità ambientale. Il secondo, non meno rilevante, è che in caso di non raggiungimento completo dell’obiettivo di spesa dei 6,3 miliardi, l’Unione Europea potrebbe non rimborsare allo Stato italiano nemmeno le risorse parzialmente impegnate, con un conseguente aggravio per le casse dello Stato. Su questo punto sarebbe auspicabile negoziare sin d’ora con la UE una riduzione immediata dell’obiettivo fissato nel PNRR.
La prossima fine del piano Transizione 4.0
D’altra parte è utopistico anche pensare, come ha fatto Carlo Calenda, di dirottare parte di quelle risorse sul piano Transizione 4.0 semplicemente perché i 6,3 miliardi del RePower EU sono vincolati a obiettivi di risparmio energetico.
E, a proposito di piano Industria 4.0, non possiamo non citare la prossima, prematura chiusura del piano Transizione 4.0.
Come sappiamo, il Ministero guidato dal ministro Giancarlo Giorgetti ha voluto porre un limite di spesa di 2,2 miliardi alla misura più amata dalle imprese. Tetto che, stando a indiscrezioni provenienti da ambienti ministeriali, sarebbe ormai già pressoché raggiunto.
A breve ci attendiamo un decreto che formalizzerà l’obbligo della prenotazione e introdurrà un contatore che – è lecito temere – già all’inizio di questa primavera potrebbe non avere più capienza.
Capire l’importanza strategica degli incentivi
Sintetizzando quanto visto negli ultimi due paragrafi, il 2025 segna di fatto il canto del cigno dei due principali incentivi per la manifattura.
Ma l’elemento più importante da sottolineare è che l’Italia sembra aver abdicato al proprio ruolo di indirizzo delle strategie di politica industriale. Il successo del piano Transizione 4.0 per il biennio 2021-2022, quello finanziato con il PNRR, si deve anche al fatto che alle risorse europee furono affiancate risorse nazionali (quelle del Fondo Complementare) per gestire tutte le situazioni di difformità che avrebbero escluso – come sta succedendo con il piano Transizione 5.0 – interi settori dalla possibilità di fruire degli incentivi.
Sul piano Transizione 5.0 lo Stato non ha voluto mettere risorse nazionali e ha quindi dovuto sottostare a tutte le imposizioni regolamentari del PNRR, DNSH in testa. E, come abbiamo visto, ha deciso di limitare a 2,2 miliardi le risorse per quello che resta del piano Transizione 4.0.
Sostenere la manifattura come motore di crescita
Il quesito centrale che emerge con forza è: quale visione ha l’Italia per il futuro della sua manifattura? Questo settore è considerato ancora strategico per la crescita e la stabilità economica del Paese? Oppure ci si è ormai rassegnati al declino?
L’impressione, analizzando le scelte politiche degli ultimi anni, è che manchi una strategia chiara e coerente. L’entusiasmo iniziale per il piano Industria 4.0 sembra essersi affievolito, lasciando spazio a una gestione emergenziale e a interventi frammentari. La decisione di limitare drasticamente i fondi per il piano Transizione 4.0 e il fallimento del piano Transizione 5.0 sono segnali preoccupanti di una mancanza di visione e di una sottovalutazione del ruolo che hanno gli investimenti privati per la competitività del sistema Paese.
Se l’Italia crede ancora nella manifattura serve un cambio di velocità. Non si può pensare di competere sui mercati globali senza un piano di politica industriale ambizioso, che preveda investimenti in ricerca e sviluppo, digitalizzazione, formazione delle competenze e sostenibilità ambientale.
Le imprese, dal canto loro, hanno bisogno di certezze e di un orizzonte temporale adeguato per pianificare i propri investimenti. La continua modifica delle regole del gioco e la mancanza di risorse adeguate alimentano l’incertezza e frenano la crescita.
Se gli incentivi sono visti unicamente come un costo per lo Stato – e non come un investimento – le imprese si ritroveranno senza un sostegno in una fase che, lo abbiamo visto, è già di suo ricca di incertezze.
E non si può sperare sempre e solo nella “longa manus” della Commissione Europea. Senza una scelta precisa che veda l’investimento anche di risorse nazionali si rischia di lasciare le imprese italiane in balia degli eventi, esposte alla concorrenza di paesi che, al contrario, stanno investendo massicciamente nella propria industria.
La manifattura italiana ha dimostrato in passato una grande capacità di resilienza e di innovazione. Con il giusto sostegno può ancora giocare un ruolo da protagonista nell’economia globale. Ma per farlo, ha bisogno di una strategia chiara, di investimenti adeguati e di una visione a lungo termine.
Un nuovo piano triennale?
Di recente Confindustria sta spingendo la proposta di un nuovo piano triennale di incentivi per favorire la transizione digitale. Un nuovo piano Industria 4.0 che sostenga gli investimenti e consenta anche di incentivare la formazione delle competenze, che sia concepito insieme alle imprese, come avvenne nel 2016 con il primo piano Industria 4.0, e come non è avvenuto con il piano Transizione 5.0, di cui le imprese (ma anche le altre parti sociali) sono state informate solo a decreti fatti.
È una buona idea, se c’è la consapevolezza che il tempo passato – quello del piano Calenda – non tornerà perché le condizioni sono cambiate. Ma è comunque necessario che tutti si mettano al lavoro al più presto per dare alle imprese un sostegno concreto che sostituisca, anche solo nella sensazione e nella fiducia, l’abbandono a cui sembrano destinate.
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